«E la morte non avrà dominio»: è un verso finale di una famosa poesia, ma, come accade di alcuni grandi versi, un emblema. Nato nel 1914, come Mario Luzi, Dylan Thomas, gallese, scrive nella sua opera poetica, come Luzi, un incessante inno alla vita. Il secolo che si è appena aperto quando i due nascono, vede la grande poesia esprimere il dolore, pensiamo alla Terra desolata e agli Uomini vuoti di Eliot, al Montale del «male di vivere» e della realtà negativa. I due maestri dell’annata 1914, pur affrontando, come ogni poeta, il dramma e gli aspetti tragici della vita, considerano però la poesia non solo un’energia vitale, ma una forma di resistenza al dolore, e un atto di sfida alle insidie del nulla, alla disperazione.Detto questo, il destino di Dylan Thomas si differenzia da quello di Luzi e di tutti i poeti del secolo, compreso l’Eliot famoso (giustissimamente) e Premio Nobel (sacrosantamente): a differenza di tutti gli autori di versi, la cui fama può essere più o meno vasta, ma dei quali è circoscritta la lettura (molti conoscevano i nomi di Eliot e Ungaretti, pochi li leggevano), Thomas assurge subito a fama planetaria. Subito celebre poco più che ventenne per l’esplosiva uscita del primo volume
Diciotto poesie, a trent’anni è famoso nel mondo, a quaranta un mito, soprattutto per le nuove generazioni. In suo onore l’adolescente cantautore Robert Zinnermann si ribattezzerà Bob Dylan… C’è qualcosa di magico e misterioso in questa fama straordinaria, a cui corrispondono le copie di libri vendute, e quindi una gran quantità di lettori reali, non solo nel mondo anglofono. Magico, o almeno misterioso, sorprendente, perché la poesia di Thomas non è semplice, anzi, si manifesta come potentemente, esplosivamente oscura. E non va, più che ridimensionata, cancellata la leggenda del Thomas «poeta maledetto»: la sua vita sregolata fu un dramma, una rovina personale, nulla di trasgressivo, maledetto, vissuto letterariamente.Maledetti sono i poeti come Villon, costretto a delinquere, ladro, anche assassino pur se per sfortuna, o Rimbaud e Verlaine, con le trasgressioni sessuali, l’uso di allucinogeni. Su questi può nascere una facile fama, che si accosta all’indiscussa grandezza poetica. Nulla di simile in Dylan Thomas, che era semplicemente un alcolizzato, sin da giovanissimo, al punto da vivere gli ultimi anni delle breve vita (morì nel 1953, all’apice della fama, di
delirium tremens) nei pub, bevendo con frequentatori occasionali e sconosciuti. No, nulla di maledetto, una semplice tragedia di debolezza, di un’anima umana che non sapeva reggere il volo dell’anima del poeta, «il cigno di Swansea», il borgo gallese che lo vide nascere e ne avrà gloria per sempre. No, nessun maledettismo in quell’uomo dalle vaste ali e dalle caviglie fragili, ma il fascino potente della sua poesia. Attribuirne il successo al suo alcolismo, come fece molta stampa e opinione pubblica, è sintomo di una rimozione: non si vuole accettare che la poesia parli, direttamente, potentemente, anche, non diciamo alle masse, ma una moltitudine di umani. Non si accetta la potenza esplosiva, catartica e rigenerante, in questo caso del poeta in cui vita e morte si bruciano vicendevolmente nel vortice di un’esperienza visionaria espressa in immagini sfolgoranti e inarrestabili, in successione molto più rapida potente di quella del sogno: direi in una vera, reale mimesi del rapimento estatico. Il mondo, nei versi di Dylan Thomas, viene gettato nella mente e nel cuore del lettore non in forme semplificate (come fa giustamente la scienza e erroneamente la poesia che alla forma mentis della scienza si adegua), ma nel suo mistero. Thomas era lucidissimo nell’esporre il suo criterio compositivo – simile a quello di un musicista fu giustamente e ripetutamente notato – (ma credo, anche per esperienza personale, che ciò valga per ogni poeta), che era una visione del mondo e una poetica nello stesso tempo: «È impossibile essere chiari. (…) Non possiamo sapere niente. Ad esempio, perché l’acqua non fuoriesce dall’Oceano mentre la terra ruota? Perché tutto è una sfera magica».Di regola i poeti che raggiungono fama popolare sono autori dal dettato semplice, di facile comprensione e lingua piana: questo vale per i grandi, come l’indiano Tagore, e per quelli forse non grandi ma comunque di certo importanti, come Pablo Neruda. Non è così per Thomas, con i suoi versi trascinanti, spiazzanti, meravigliosamente labirintici e capaci di esplosioni irresistibili.Una forza subliminale, che è in realtà il conseguimento di una semplicità primordiale, se è profondamente elementare il mondo poetico di Thomas, incentrato sul triangolo Vita-Morte-Amore, e sulla consustanzialità della linfa che scorre in tutte le creature. «La forza che nella verde miccia spinge il fiore/ spinge i miei verdi anni, (…)», e, tornando all’
incipit di questa breve riflessione, «La morte non avrà dominio». Questo sapeva la voce di Thomas, poeta oracolare e orale che fa suonare anche le lettere scritte, e che riassunse in un titolo epocale la sua visione della poesia: «Visione e preghiera».