Basket. Nba, vince Toronto. Per la prima volta il titolo emigra in Canada
Dal seminario a campione Nba: Pascal Siakam, cestista camerunense dei Toronto Raptors
Chi l’avrebbe mai detto che il Canada un giorno si sarebbe risvegliato non più con l’acero ma con una palla da basket nella bandiera. E invece la suggestione ci sta tutta dopo l’impresa dei Toronto Raptors che consegnano in dote al proprio Paese l’anello più prestigioso della pallacanestro mondiale: il titolo della Nba, il fenomenale campionato statunitense. Un trionfo storico a suggellare il matrimonio felice del basket con i canadesi, una terra in cui da sempre l’unica religione sportiva riconosciuta era quella dell’hockey su ghiaccio. Pensare però che da queste parti la palla a spicchi sia piombata dal cielo a caso significa ignorare la storia stessa della pallacanestro. Proprio a Toronto si è infatti giocata quella che viene considerata la prima partita di sempre di questo sport: il 1° novembre del 1946 la squadra locale degli Huskies, antenati dei Raptors, sfidò i New York Knicks. Era ancora il campionato Baa, la Nba sarebbe solo nata tre anni dopo. I newyorkesi andarono a Toronto in treno ma alla frontiera non vennero riconosciuti: «Siamo i New York Knicks», dissero. Ma la risposta fu gelida: «Noi di New York conosciamo solo i Rangers dell’hockey». Curioso poi che il roster degli Huskies era formato da dieci statunitensi e un solo canadese, che in realtà era nato in Italia, a Beano, frazione di Codroipo, in provincia di Udine: Hank Biasatti. A quella partita parteciparono 7090 spettatori e per invogliare la gente a vederla l’ingresso ero gratuito a chi superava l’altezza del giocatore più lungo in campo, tal George Nostrand di 203 centimetri. Ma nessuno riuscì ad approfittare di quel gentile omaggio e in ogni caso la partita finì 68 66 per New York.
Eppure la storia del basket incrocia il Canada sin dall’invenzione stessa del gioco. Era infatti nato ad Almonte, vicino a Ottawa, James Naismith, il professore di educazione fisica a cui spetta la paternità di questo sport. Aveva studiato a Montréal prima di trasferirsi negli Stati Uniti e alzare la prima palla a due della storia (un pallone da calcio peraltro) nell’aula magna dello Springfield College, un ateneo cristiano del Massachusetts. Pressato dal rettore che voleva uno sport adatto per i ragazzi anche in pieno inverno, una sera di dicembre del 1891 inscenò una prima rudimentale partita di basket, il cui campo era delimitato da due ceste da frutta di vimini, prototipi dei primi canestri. Ma l’ispirazione gli era venuta proprio da un curioso gioco molto diffuso tra i bimbi canadesi, chiamato duck on a rock (l’anatra sulla roccia). Consisteva nel lanciare un sasso verso due pietre sovrapposte facendo cadere quella in bilico che occupava la posizione più in alto. E bambini si ritorna ogni anno guardando l’Nba, rimembrando l’esplosione televisiva che ebbe da noi negli anni Ottanta entrando per la prima volta nelle case degli italiani con la voce di Dan Peterson. Le magie dei mostri sacri del parquet sono quelle che ancora oggi ti spingono a puntare la sveglia alle 3 di notte per goderti lo spettacolo delle Finals. Un evento che ha finito per coinvolgere in Tv un canadese su due, con tutto l’orgoglio nazionale per i Raptors, prima squadra a portare il titolo fuori dai confini statunitensi. La pecora nera del basket americano è diventata campione: una rivincita sottolineata anche dalla franchigia sui social, dopo essere stati spesso «sottovalutati e trascurati».
L’apice di un club nato nel 1995 che sulla scorta del successo di “Jurassic Park” di Steven Spielberg ha spinto i tifosi di Toronto a battezzare la squadra come Raptors da “velociraptors”, dinosauri rapidi e astuti. Oggi sono riusciti nell’impresa di divorarsi i campioni in carica di Golden State che ha vinto 3 degli ultimi cinque campionati. Sebbene i Warriors siano arrivati all’ultimo atto azzoppati da mille infortuni, e pertanto va concesso a Steph Curry e compagni tutto l’onore delle armi. 4-2 il successo nella serie finale per i Raptors trascinati da un fenomeno come Kawhi Leonard, campione sconvolto dall’assassinio del padre quando aveva solo 17 anni. Un delitto irrisolto, una mazzata incredibile: scoppiò in lacrime tra le braccia della madre quando seppe la notizia al termine di una partita di basket giovanile. Lui che era cresciuto nell’officina di suo padre aiutandolo a lavare le macchine. È riuscito a rialzarsi e oggi porta sul braccio il tatuaggio: «Riposa in pace ». Ma nel trionfo di Toronto c’è anche un pizzico d’Italia, con Sergio Scariolo, assistente allenatore dei Raptors che si conferma coach di livello internazionale, come i tanti successi alla guida della Spagna. E Scariolo a Toronto prosegue una tradizione cestistica tricolore che annovera anche un pioniere come Vincenzino Esposito seguito poi da Andrea Bargnani e Marco Belinelli.
Del resto la vocazione internazionale della franchigia ha portato alla ribalta anche personaggi le cui storie incredibili parlano da sole. Uno è senz’altro lo spagnolo Marc Gasol, star da 20 milioni di dollari all’anno, eppure immortalato l’anno scorso (quando ancora giocava coi Grizzlies) a bordo di una nave nel Mediterraneo impegnato a salvare i migranti: «Prima di essere sportivi siamo uomini ». E da anni insieme al fratello maggiore Pau - anche lui stella dell’Nba - ha messo su una fondazione di solidarietà per i bambini più poveri. Viene invece addirittura dal Camerun la favola di un altro protagonista di questa stagione fantastica di Toronto. Pascal Siakam frequentava il seminario di St.Andrew a Bafia, perché il padre lo vedeva un giorno come sacerdote cattolico. Ma il figlio ha scelto un’altra strada. Eppure, sebbene più volte abbia cercato di essere espulso, oggi riconosce come il seminario sia la cosa migliore che gli potesse capitare. Il padre non è mai riuscito a vederlo giocare ad altissimi livelli (è morto nel 2014), ma lui porta nel cuore i suoi consigli. Qualche anno fa confessò: «Penso di sapere perché mio padre mi ha fatto entrare in seminario. Mi stava dando tutti gli strumenti di cui avevo bisogno per avere successo. Per lui realizzare il sogno di avere un figlio che giocava nell’Nba era importante quanto che diventassi un uomo perbene». E se ne ricorda sempre, ogni volta che scende in campo, facendo il segno della croce e indicando il cielo. Fede e gratitudine per «la persona migliore che abbia mai conosciuto»: suo padre.