Agorà

Intervista. Il calcio della buona Ventura

Dario Pelizzari giovedì 4 giugno 2015
La prima volta di Giampiero Ventura sulla panchina di una squadra di calcio fu all’inizio degli anni Ottanta, ad Albenga, tra i dilettanti. Un genovese alle prese con il pallone ligure, tra delitti e castighi di provincia e prospettive ancora tutte da calibrare. Il salto nella Serie A arriva, però, soltanto vent’anni dopo, a Cagliari. Da allora è stato un saliscendi di risultati ed emozioni. Di premi e riconoscimenti. Fino al Torino, storia del giugno 2011. Dove ha conquistato il numero uno della società granata, Urbano Cairo, a colpi di risultati da applausi e plusvalenze da sogno.La rincorsa del Torino all’Europa League è scivolata sull’incredibile autogol del portiere Padelli con l’Empoli. Ripetersi quest’anno sarebbe stato un colpo da prima pagina. «Il nostro problema era nei numeri. A un certo punto della stagione, i giocatori a mia disposizione per affrontare il doppio impegno erano troppo pochi per sperare di fare bene su entrambi i fronti». Le due medaglie della stagione appena conclusa si chiamano derby e Bilbao. Quale la rende più orgoglioso?«Da allenatore dico Bilbao, perché i tremila tifosi granata che erano lì credevano che avessimo la possibilità di vincere. E questo ha significato tanto per me: rappresentava la prova che negli ultimi anni avevamo seminato qualcosa di importante. Chi tifa Toro è tornato ad avere fiducia nella squadra. Il derby fa storia a sé. Per il Torino è sempre una partita particolare: siamo riusciti a battere la Juve dopo 20 anni». Il presidente Urbano Cairo dice che sarà ancora lei il tecnico dei granata. Questo Toro può ambire a fare il salto di qualità?«Sono stupito da tutte queste chiacchiere. Non ho mai parlato del mio contratto. Ho soltanto parlato di quanto è stato fatto e di quanto si potrebbe fare. In questi quattro anni è stata fatta una buona semina. Soprattutto, dal punto di vista della mentalità. Abbiamo lavorato per fare diventare una squadra finalmente protagonista del proprio destino». È considerato uno dei pochi insegnanti di calcio in circolazione.«Cosa si intende per allenatore? È la persona che ti dà la salvezza o che produce milioni di euro? Per Boskov era semplicemente “un accompagnatore ben pagato”. Ognuno può pensarla come crede. Se Ancelotti guidasse una squadra di media classifica, riuscirebbe a farla vincere? Secondo me, farebbe fatica a salvarsi. Ha mai visto una partita di Mourinho che l’ha divertita? E questo non significa che Mourinho è un incapace. Ma ci sono molti insegnanti di calcio più bravi di lui». Che effetto le fa essere accostato a diverse squadre? La considera una rivincita?«Ammetto che sia una gratificazione non indifferente. Ma un conto è essere accostato un altro è firmare un contratto. La rivincita? Sarebbe avere una squadra altamente competitiva e dimostrare se sono vero oppure no». Ha raggiunto la A a 50 anni. È migliorato col tempo o non l’hanno capita?«A Pistoia (fine anni Ottanta, ndr) ho iniziato a fare l’allenatore vero. Poi sono andato a Giarre. E da quelle parti sono ancora convinti che il mio Giarre sia stato il migliore di sempre. A Venezia, Lecce, Cagliari e Bari è andata nello stesso modo. Penso che avrei meritato di ottenere qualcosa in più». Non le hanno mai affidato una grande squadra. «Quando ho iniziato io andavano di moda i grandi saggi. Ora che potrei essere considerato un saggio, vanno di moda i giovani. Questa è sfortuna. Ma ci sono anche delle colpe. Ho pensato ad esempio che fosse più importante essere che apparire: mi sbagliavo. Puoi fare l’impresa più grande, ma se non c’è nessuno che ne parla è come se non avessi fatto nulla».Per qualche giorno è stato fatto anche il suo nome per la panchina del Milan. «Quando sento dire che il Milan non ha qualità rimango senza parole. E lo stesso discorso vale per l’Inter. Qualcuno ha detto che Inzaghi e Mancini hanno sì sbagliato qualcosa, ma con la rosa che avevano a loro disposizione non si poteva sperare in molto di più. Hanno detto lo stesso del mio Torino. Quando l’ho sentito, mi è scappato un sorriso». Anche Maurizio Sarri, il tecnico dell’Empoli, non è più giovane. Eppure, per lui tutti stravedono.«Merito anche di Arrigo Sacchi, che ne ha parlato benissimo. Sarri è un buon allenatore, ma per i suoi giocatori vale quello che dicono dei miei. Se li alleno io, non sanno mai quanto potrebbero dare con un altro allenatore». Sacchi ha dimostrato che per diventare grandi tecnici non è necessario essere stati dei grandi calciatori. «Io come calciatore avrei potuto fare una discreta carriera, nulla di più. Nella Primavera della Sampdoria giocavo con Marcello Lippi, Giuseppe e Pietro Sabatini, ma non ho mai esordito in A. La ragione è presto detta: mi piaceva tirare tardi la sera. Se fossi stato più intelligente, probabilmente le cose sarebbero andate in un altro modo». Dicono che la fortuna nello sport spesso sia più importante del talento.«Credo nel momento fortunato. Un esempio? Allegri è stato bravissimo a condurre la Juventus. Ma rischiava di rimanere fermo per un anno. Poi, Conte ha dato le dimissioni e la Juve ha pensato a lui. Ecco, questo è un colpo di fortuna. A me è capitato poche volte». Dal calcioscommesse al terremoto Fifa. Il calcio è malato, per colpa di chi?«Il calcio è anche e soprattutto una questione di potere e denaro. A mio parere tutti coloro che sono stati sorpresi con le mani nella marmellata avrebbero dovuto essere squalificati a vita. Cominciamo a fare così e vedremo che qualcosa inizia a cambiare. Appena smetto, sono sicuro che ci sarà una lotta per avermi come opinionista in tv. Tutti sanno che dico sempre quello che penso, senza filtri. Vuoi mettere il divertimento?». A gennaio ha compiuto 67 anni. Potesse tornare indietro, quali scelte cambierebbe?«Ho fatto un errore madornale: ho detto sì alla Samp. Un genovese non può lavorare in una delle squadre di una città dove si vive di piccole e grandi invidie».