Anticipazione. Il bello dell'amicizia è l'arte dell'incontro
Un'immagine de "I Dialoghi di Trani", che si terranno dal 23 al 27 settembre
La XIX edizione de “I Dialoghi di Trani”, intitolata “Il tempo delle domande”, prenderà il via mercoledì 23 per concludersi domenica 27 settembre. Edizione straordinaria, con appuntamenti online e alcuni incontri dal vivo in pieno rispetto delle regole anti-Covid. Partendo dal suo libro Sulle ali degli amici (Marsilio. Pagine 152. Euro 16,00), l’autore e conduttore radiofonico (“Tutta la città ne parla”, Radio Rai3), Pietro Del Soldà ai “I Dialoghi di Trani” interverrà domenica 27 settembre. Quel giorno, alle ore 17, al Palazzo delle Arti Beltrani, Del Soldà dialogherà con il filosofo Carlo Sini. Alla kermesse tranese interverrà anche il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che giovedì 24 settembre prenderà parte alla tavola rotonda La Chiesa di Papa Francesco. Con Tarquinio dialogheranno e si interrogheranno su «quanto la comunità cristiana ascolta il grido delle donne e degli uomini di questo tempo?», il presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, don Tonio Dell’Olio e il giornalista di Telenorba Giovanni Di Benedetto.
Quali ferite profonde ci lascerà la pandemia? Oltre il lutto per l’incredibile strage, oltre i danni economici le cui proporzioni ci sfuggono ancora, il lock down e i limiti imposti al contatto fisico hanno aggravato una crisi profonda della nostra socialità che era già in atto. Il pensiero ora va innanzitutto ai bambini e ai ragazzi che proprio in questi giorni, in così difficili condizioni, sperimentano il ritorno all’amicizia, alla complicità, al gioco e alla vicinanza fisica (relativa) con i compagni di scuola dopo mesi di videochiamate, chat e rapporti esclusivi con i famigliari.
Ma è il caso di pensare anche a noi adulti: sembra più facile per noi accettare una sospensione di qualche mese del contatto fisico in attesa del vaccino, per poi tornare a vivere come prima. Il problema è che la nostra esistenza è ormai da tempo frammentata in una miriade di ruoli, identità provvisorie, maschere sociali e rapporti che affollano le nostre giornate senza per questo farci sentire meno soli. Quand’era premier del Regno Unito, Theresa May parlò della solitudine come di una national plague, di una peste, un’epidemia che colpisce le società contemporanee e che non riguarda soltanto le persone senz’amici o parenti con cui scambiare due chiacchiere o a cui chiedere aiuto, ma che raggiunge anche chi gode di una buona rete di affetti, conoscenze e rapporti di lavoro appaganti.
Ciò che sembra venir meno nel nostro mondo, e che la pandemia rischia di compromettere in modo definitivo, è il senso profondo dell’amicizia. Intendiamoci, agli amici noi teniamo molto: un recente sondaggio conferma che un buon amico è il bene più desiderato dagli under 35 europei, più ancora di un rapporto d’amore o del successo professionale, e le cose cambiano di poco per gli adulti. Tuttavia, pur attribuendole grande importanza, tendiamo a concepire l’amicizia in modo limitato, parziale, confinandola in un recinto ben protetto della nostra vita: l’amicizia è per noi come una pianta che cresce in un giardino segreto, al riparo dalle interferenze della sfera pubblica o del lavoro e, più in generale, dalle tensioni che rendono spesso minaccioso o incomprensibile il mondo là fuori.
È un oasi in cui coltivare l’affetto, il calore, l’intimità, le confidenze, l’aiuto reciproco, il divertimento nel tempo libero e le altre gemme preziose che addolciscono il mondo e che solo con gli amici siamo disposti a condividere. Il problema è che l’amicizia così intesa si riduce a un fatto privato, spoliticizzato, svuotato cioè d’ogni valenza politica e separato dal nostro essere membri di una comunità che è ben più grande della cerchia d’amici (durante la pandemia ciò si è reso evidente persino ai più individualisti). Noi umani, come spiegò Aristotele, siamo animali politici e non riusciremo mai a vivere bene voltando le spalle a questa verità. La nostra concezione privatistica dell’amicizia appare più debole e marginale rispetto alla nozione, centrale nella filosofia greca classica, di philia, parola ricchissima che noi un po’riduttivamente, sulla scorta dei latini, traduciamo con amicizia. La philia, dice Aristotele, è il cemento della polis: senz’amicizia non si dà vera comunità politica. Essa è preziosa al punto che «i saggi legislatori la tengono in maggior conto della giustizia», e tuttavia non serve solo alla tenuta della città: al contrario, il filosofo la definisce anche «la messa in pratica della felicità ». Solo grazie all’esperienza dell’amicizia, che permette ai philoi di con-sentire l’essere, cioè di sentirsi davvero vive e presenti nel mondo, possiamo avvicinare quell’armonia delle passioni e dei pensieri che ha per nome eudaimonia, felicità.
Belle suggestioni che c’arrivano da un mondo troppo lontano, si potrebbe obiettare. Vero. E tuttavia esse possono influire anche su di noi, nel nostro tempo, spingendoci a concepire in modo diverso le relazioni e aiutandoci a vivere un’esistenza meno frammentata. In questa direzione va lo sforzo che ho cercato di compiere con il libro Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro( Marsilio), elaborando non tanto una teoria dell’amicizia bensì una proposta per ripensarla, molto concretamente, partendo dai greci. Non si tratta, banalmente, di attingere alla filosofia antica come se fosse un deposito di ricette utili per vivere felici, da estrarre a piacimento per applicarle così come sono alla nostra vita, venticinque secoli dopo Platone e Aristotele. Uno sforzo di questo tipo sarebbe fallimentare. Al contrario, l’idea è di leggere quei testi in modo attivo, coinvolto, mettendosi in discussione, sforzandosi di mettere in una tensione costruttiva le idee che essi contengono con quel che ci capita intorno. Questo è del resto ciò che, prima di Aristotele, si aspettava dai suoi lettori Platone, il più formidabile scrittore dell’antichità e nel contempo il più consapevole dei limiti della scrittura: la conoscenza non passa dal testo al lettore «come l’acqua che si travasa dal recipiente pieno a quello vuoto», lo scritto non è cioè un contenitore di dottrine e di nozioni da assorbire passivamente.
La scrittura platonica è al contrario un distesso spositivo nelle mani del lettore affinché passi all’azione avanzando lungo la via della conoscenza sé. E ciò accade laddove Socrate, il protagonista dei Dialoghi, indaga la natura dell’amicizia, scoprendo ben presto che essa di essa non si dà una definizione esaustiva. Di- ce Socrate che dell’amicizia non si dà concetto poichè essa è inafferrabile, liscia, morbida, esattamente come la bellezza (uno dei più formidabili enigmi di Socrate è l’identificazione che egli traccia, nel Liside di Platone, tra «l’amico» e «il bello» come se fossero la stessa realtà). L’amicizia, dice l’ateniese, ci sfugge sempre di mano ma nel suo sfuggire essa emette luce, rischiara zone oscure dell’essere, ci mette in contatto con noi stessi. E così facendo, mette in crisi un’idea diffusa, oggi come allora, secondo la quale la chiave per definire gli amici sarebbe la somiglianza: «il simile è amico del simile », pensano i più. Ma Socrate non è d’accordo. Per lui, al contrario, l’amico è «colui che ha ciò che io non ho».
Un’idea semplice ma potente: il fatto di assomigliarsi, di condividere ad esempio l’appartenenza alla stessa cultura, alla stessa nazione, alla stessa generazione o classe sociale, o di credere nello dio e di parlare la stessa lingua, non è affatto decisivo affinché si dispieghi un rapporto d’amicizia tra due persone. Al contrario, l’amico è tale in quanto mi attrae e affascina nella sua diversità. Amico non è dunque, in primo luogo, colui che mi rassicura offrendomi un riparo dalle minacce del mondo: al contrario, l’amico vero non m’acquieta ma m’inquieta, mi risveglia, mi destabilizza mettendo in discussione le troppe certezze e le abitudini consolidate che m’impediscono di liberare l’energia compressa dentro di me.
E così agendo, l’amico fa vacillare un asse portante della società e della politica contemporanea: l’ossessione per l’identità. Il nostro tempo è dominato dalla presenza egemone di due potenze soverchianti: l’Io, inteso come soggetto altamente individualizzato, ipercompetitivo e narcisista, e il Noi, inteso come comunità esclusiva e aggressiva, cementata dalla paura e dalla protezione offerta da un «uomo forte ». L’amicizia come philia, incarnata per la prima volta dal Socrate platonico, se meditata a fondo è dunque in grado sottrarci all’egemonia di queste due forze opprimenti, aprendo strade nuove e inesplorate, lungo le quali potremo scoprire che la relazione piena e la diversità sono condizioni essenziali per la ricerca della felicità.