Spiritualità. «Dipingere icone è il desiderio di incontrare il volto di Cristo»
San Giustino
«Quello delle icone è il linguaggio dello sguardo. È un incontro fra cuori che non ha bisogno di parole. Le icone non hanno bisogno di essere spiegate, in loro non c’è niente di arcano e di nascosto: mostrano il volto divino e generano in noi la nostalgia di eternità. In questo l’icona è taumaturgica perché parlando al cuore realizza un incontro senza mediazione un flusso diretto col divino. Ed è anche un formidabile avamposto di evangelizzazione». Il maestro iconografo Ivan Polverari, nel suo studio a Roma, nella casa dove vive con la famiglia, è seduto al cavalletto dove sta lavorando su un’icona di “Santa Sofia”. Intorno a lui ci sono numerose tavole già preparate che testimoniano di commissioni che hanno già impegnato buona parte del 2021 a dimostrazione del crescente interesse per quest’arte. Su una mensola c’è un tondo col “Bel Pastore” appena ultimato e subito sopra, in una teca, un Cristo realizzato da uno dei suoi due maestri di arte e spiritualità, l’ortodosso padre Andrej Davidov con quale per anni ha condiviso i corsi di iconografia all’Abbazia di Praglia. L’altro maestro al quale è legato da grande amicizia è Fabio Nones che nel 1995 lo ha avuto come “garzone di bottega” nello studio a Trento «dove ho appreso un modo di pensare e vivere l’icona». Oggi i corsi di iconografia del maestro Polverari, fresco di studi teologici, sono molto seguiti e apprezzati.
Come nasce la sua «chiamata» alle icone?
Hanno inciso molto i racconti di prigionia di mio nonno. Nella Seconda guerra mondiale era internato in un campo di lavoro a Rodi. Qui poteva recarsi in una piccola chiesa ortodossa e ogni giorno portava fiori a un’icona della Madre di Dio mettendoli in un vaso che aveva ricavato da un bossolo di antiaerea. Lui non sapeva che cosa fosse un’icona, la pensava come una delle immagini mariane del suo paese. A quell’icona aveva affidato la vita e la speranza di tornare a casa. Dalle sue descrizioni non sono riuscito a risalire a quale tipo di icona fosse, ma quel semplice e immediato incontro fra cuori ha cambiato anche la mia vita. Poi nel ‘93 ho frequentato un corso di iconografia a Trento e la mia chiamata a dipingere icone si è fatta chiarissima.
Ma le icone si dipingono o si scrivono?
Qui si potrebbe aprire un dibattito, ma in realtà dovremmo considerarlo un semplice equivoco che nasce da un errore di traduzione dal russo. In quella lingua la parola utilizzata può indifferentemente significare scrivere e dipingere. Analogamente la parola greca gráphein. Poi si sono trovate delle giustificazioni all’uso del concetto di “scrivere” piuttosto che quello di “dipingere”. In realtà nella nostra lingua la parola specifica è dipingere. Insomma, io dipingo icone.
Cosa significano le icone per l’Oriente cristiano?
Hanno un legame diretto con la liturgia che è celebrazione orante della Parola di Dio e hanno la funzione di rappresentare questa lettura orante della Parola. Mentre la nostra “Biblia pauperum”, da Giotto in poi, pone lo spettatore di fronte al racconto storico di un evento biblico, le icone, così come l’arte cristiana del primo millennio, hanno il compito di introdurre ai misteri di Dio facendo partecipare spiritualmente a essi. Sono un’arte teofanica che rappresenta con immediatezza il mistero divino nel volto di Cristo.
Così come i dipinti nelle nostre catacombe?
Il senso è lo stesso. E non dipende dal fatto che in quell’epoca si dipingeva così, perché è lo stesso stile tardo–ellenistico della Villa dei misteri a Pompei. In questo senso l’icona, pur essendo rappresentativa delle Chiesa d’Oriente, presenta uno stretto legame con la Chiesa d’Occidente, come è stato confermato da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Duodecimum saeculum. E non è un caso che le più antiche icone conosciute si trovino a Roma e tutte riferibili al VI–VII secolo.
Quali sono?
La Madonna della Clemenza a Santa Maria in Trastevere; la Madonna Avvocata al monastero delle domenicane a Monte Mario; l’Acheropita del Laterano; Santa Maria Odigitria al Pantheon, datata 609; la Madonna Odigitria della chiesa di Santa Francesca Romana, considerata la più antica immagine mariana conosciuta. In questo senso le icone rappresentano il culto di tutta la Chiesa.
Dipingere icone è quindi un lavoro di grande responsabilità.
Le immagini hanno un potere enorme e in quest’epoca lo sappiamo bene. Quando dipingiamo icone dobbiamo stare attenti a non cadere nel lezioso, nel sentimentale o nell’individualistico. L’arte per la liturgia è un’arte forte in cui la bellezza e il gusto per il dettaglio non sono fini a se stessi, ma tutti riconducibili al Volto (con la “V” maiuscola) di chi è rappresentato. Se i dettagli non conducono al Volto e non favoriscono lo scambio di sguardi che apre al dialogo fra cuori sono fuorvianti: quella pittura non è un’icona.
Questo scambio di sguardi e di cuori è il segreto del crescente interesse per le icone e l’iconografia?
Possiamo dire che in Occidente le icone sono tornate con i russi in fuga dalla Rivoluzione d’ottobre. Il Centro Saint–Serge di Parigi è stato un propulsore e dopo il Vaticano II le icone hanno avuto sempre più spazio nel mondo cattolico anche col sorgere di migliaia di scuole di iconografia nel mondo. Ne è nata una corrente di riscoperta delle icone con un seguito vastissimo, in contrasto con la vulgata artistica dominante che esula dalla rappresentazione figurativa.
Questo cosa significa?
Che i cristiani hanno bisogno di arte sacra figurativa perché Dio si è incarnato, ha preso forma, sostanza e volto umano. Si tratta di un’esigenza che viene dal basso e si presenta come un richiamo all’essenzialità. Una reazione a tanta spiritualità disincarnata, cerebrale. È come se la gente ci ricordasse l’urgenza di quello scambio di sguardi con Dio e chiedesse alla Chiesa di rendere palese, in tutte le sue attività, il Volto dello Sposo. Le icone rappresentano quel volto divino e richiamano in noi la nostalgia di eternità: saremo come lui, siamo ascesi al cielo con lui. In questo senso le icone ricordano che la carne dell’uomo ha un valore eterno: non è la prigione dell’anima come per Platone e come tanti ancora pensano oggi.
Le migliaia di persone che seguono i corsi di iconografia cosa cercano?
Almeno due cose, anche se forse all’inizio non chiaramente: desiderano vedere lo Sposo e sentono nostalgia della natura liberata dai lacci del peccato, perché quando guardiamo le icone vediamo l’uomo escatologico, redento. Ma ci sono anche coloro che vengono semplicemente per imparare una tecnica antica che si tramanda nei secoli.
Qual è il compito del maestro iconografo?
Attraverso i colori, la tavola, i pennelli, la foglia d’oro deve far incontrare il volto di Cristo al proprio allievo e non è cosa semplice. Ma dietro alla professionalità di un autentico iconografo c’è una vita dedicata, offerta, chiamata, altrimenti possono esserci solo buone riproduzioni che non saranno mai icone. E questo si percepisce. Recentemente un mio allievo agnostico era interessato a imparare la tecnica. Andando avanti, però, si è reso conto che non era solo questione di tecnica e voleva abbandonare per non venire coinvolto in un contesto che implicava la fede. Io gli ho detto: «Finisci l’icona e poi decidi». A Natale mi ha mandato la foto del piccolo presepe che aveva fatto a casa sua, col commento: «Se oggi questo segno ha un significato lo devo al tuo corso».
Si è convertito?
Non lo so. Ma attraverso l’icona Cristo bussa alla tua porta. Tanti vengono con intenti superficiali. Alcuni sono influenzati da credenze new age, pensano che le icone siano piene di significati nascosti e si fa fatica a chiarire che in esse non c’è niente di arcano che debba essere spiegato, perché altrimenti non sarebbero cristiane. Lo sguardo di Cristo intercetta tutti gli sguardi: non bisogna essere iniziati. L’icona è come la lampada evangelica posta in alto per illuminare. In essa non c’è nulla di segreto, anzi, illumina i segreti. È vero gli interessi sono diversi, ma io accolgo tutti perché so che ognuno deve poter fare la sua esperienza col volto di Cristo. Io sono lo strumento. È il Signore che si fa presente e chiede di poter entrare. Poi il passo verso la fede resta una scelta personale: puoi aprire la porta, aprirla in parte o lasciarla chiusa.
Quanti corsi si fanno in Italia?
Centinaia. Il problema è capire se insegnano a fare icone o solo buone riproduzioni.
Perché fare icone oggi? Perché siamo come quegli scribi evangelici che estraggono dal loro tesoro cose nuove e cose antiche. Lo stile è antico e si può aggiornare, ma il suo linguaggio è eterno come lo è la Parola di Dio.