Novecento. I racconti di Papini, talento fantastico in anticipo su Borges e la distopia
Giovanni Papini nel 1913
A Giovanni Papini, uno dei più brillanti figli del secolo, non è stato perdonato nulla: l’adesione al fascismo prima, la conversione al cattolicesimo poi, maturata con la traumatica esperienza della guerra, che lo indusse a pubblicare nel 1921 un’originale Storia di Cristo. Tra le tante cose scritte e dette su di lui mi pare particolarmente suggestivo quanto affermò lo storico del-l’arte Maurizio Calvesi nel 1982 in un intervento intitolato Papini e la formazione fiorentina di Giorgio De Chirico: secondo cui «la lettura del Tragico quotidiano (1906) e del Pilota cieco (1907) fu decisiva per la svolta metafisica della pittura di Giorgio De Chirico». Un riferimento a un conclamato gigante del secolo scorso che, stando all’oblio in cui poi è precipitato Papini, non ti aspetteresti, soprattutto da parte di uno dei critici d’arte di ferrea fede progressista.
Era stato lo stesso scrittore, del resto, a parlare dei suoi racconti come di «novelle metafisiche». Ricavo le citazioni dall’Introduzione del curatore Raoul Bruni e dalla Prefazione di Vanni Santoni - cui s’aggiunge anche una Postfazione di Alessandro Raveggia - al ponderoso volume proposto dalle Edizioni Clichy (pagine 720, euro 25,00), che raccoglie ora I racconti dello scrittore fiorentino. Come scrive Bruni nelle Note sui testi sono qui riunite «le raccolte narrative pubblicate da Giovanni Papini tra il 1906 e il 1954, il racconto lungo La vita di Nessuno( 1912) e una serie di racconti dispersi», non senza radunare nella sezione finale «le prefazioni e le note d’autore».
Operazione questa - è importante aggiungerlo - che va a colmare una lacuna sorprendente del Meridiano curato da Luigi Baldacci e Giuseppe Nicoletti nel 1977, cui va comunque il grande merito di aver riproposto con autorevolezza il Papini, diciamo così, avanguardista, senza però includere alcun suo racconto: quando diventa evidente, proprio grazie a questo volume, che si tratti di uno dei più suggestivi frequentatori del 'fantastico' del Novecento non solo italiano.
Ho detto Papini: l’autore di racconti che piacque così tanto a Jorge Luis Borges, fino al punto da essere inserito nel 1975 nella famosissima collana 'La Biblioteca di Babele' allestita per il raffinato editore Franco Maria Ricci. Il volume s’intitolava Lo specchio che fugge, titolo quanto altri mai borgesiano in anticipo, preso appunto in prestito da quello del racconto eponimo incluso nella raccolta Il tragico quotidiano: «Volume numero due – sottolinea Santoni – dei trentatré in cui si articolava la collana», accanto tra gli altri a Jack London e Franz Kafka, Hermann Melville, Edgar Allan Poe. Indugiamo ancora un attimo sul rapporto con Borges: Bruni ha giustamente osservato che in un racconto come Le rovine circolari, uno dei più celebri di Finzioni( 1944), è «riecheggiata L’ultima visita del gentiluomo malato, che Borges incluse sia nell’Antologia della letteratura fantastica (1940), curata con Silvana Ocampo, sia nel tardo Libro dei sogni (1976)». Dico L’ultima visita del gentiluomo malato: già presente nel 1906 nella raccolta Il tragico quotidiano. E che dire di quei Ritratti immaginari, pubblicati nel 1940 (e scritti tra il 1936 e il 1939), i quali «trattano di persone mai esistite» e si richiamano palesemente a quelli celeberrimi di Walter Pater apparsi nel 1887?
In molti di questi racconti vorticano i nomi più diversi, in un costante dialogo (quando non si tratti di scontro) che si consuma in una dimensione acronica, in cui gli artisti e gli scrittori sono tutti contemporanei. Cito dalle due pagine di fatto dedicatorie scritte al caro amico Vannicola e ricavate da La vita di Nessuno (1912), l’incredibile storia d’un feto inseguita dal concepimento fino alla nascita, ove spiega - nei modi d’un parossistico egotismo - la ragione per cui è contrario alle dediche («Io voglio che nei miei libri non vi sia altro nome e cognome che quello di Giovanni Papini»): «Io odio il capolavoro di Giovanni della Casa quanto - se non più - le mie prigioni di quel Silvio che infradiciò i nostri occhi di bambinetti elementari».
L’attacco del tutto imprevisto, in qualche modo gratuito, a un padre della patria come Silvio Pellico ci restituisce tutta l’insofferenza di Papini per la retorica risorgimentale che era ancora carduccianamente alla base della celebrazione della 'nuova' Italia. Quanto a Giovanni della Casa e al suo famoso 'libretto' si rimanda senz’altro all’esilarante racconto del 1912 poi raccolto in Buffonate (1914) e cioè La riforma del galateo. Questo per dire che la vocazione metaletteraria è già consapevolmente presente in Papini prima ancora che il concetto di metaletteratura nascesse (insieme alla Teoria della Letteratura) e che Borges scrivesse i suoi memorabili e più importanti racconti. Non senza aggiungere che si tratta d’una vocazione agonistica, militante, calata nel dibattito intellettuale dei suoi anni, ancora lontanissima da quella declinazione elusiva che caratterizzerà gli scrittori delle generazioni successive, da Borges all’ultimo Calvino appunto: stiamo pur sempre parlando dello scrittore che nel 1916 darà alle stampe Stroncature.
Tanto altro ci sarebbe da dire su questo Papini narratore fantastico. In conclusione - trascurando un punto cruciale e di grande futuro per la storia della nostra prosa come il nesso tra letteratura e filosofia - vorrei però accennare a un altro sottogruppo di testi, quelli lato sensu distopici, concentrandomi su La rivolta dei ragazzi pubblicato su 'La Stampa' nel 1913 e incluso anch’esso in Buffonate, che inizia nel nome di Michelstaedter. Ecco: che futuro sarebbe quello in cui i ragazzini si rifiutassero di andare a scuola, considerata ormai mero 'reclusorio'? Chi parla è uno dei fondatori della Lega dei ragazzi: «Noi vogliamo fare per i bambini quel che le femministe fanno per le donne. Vogliamo proclamare, conquistare e difendere i diritti della fanciullezza! ». Del secolo a venire Papini aveva già capito tutto ciò che c’era da capire.