Agorà

Il ritorno. Mike Tyson e i campioni che non sanno dire basta

Alberto Caprotti mercoledì 13 novembre 2024

La presentazione della sfida tra Mike Tyson e Jake Paul

A volte ritornano, e quasi sempre non è una buona notizia. Per chi non li aspettava affatto e invece se li ritrova davanti, anche solo in tv. E soprattutto per loro stessi, e per quello che rischiano di peggiorare con apparizioni che fanno molto rumore, ma non aggiungono nulla di più. Il ritorno di Mike Tyson, a 58 anni suonati, contro Jake Paul è fissato per venerdì 15 sul ring apparecchiato allo stadio AT&T di Arlington, Texas, la casa dei Dallas Cowboys di football americano. Bocche assetate di soldi sono pronte a spartirsi un giro d’affari stimato in 300 milioni di dollari, 80mila biglietti venduti in un amen e la folta platea televisiva che Netflix conta di raccogliere trasmettendo la diretta dell’incontro e poi producendo un docufilm. Tyson, o il fantasma del pugile che fu, intascherà 20 milioni di dollari per illudere di essere ancora lui. E questo basterebbe a spiegare tutto, se tutto questo avesse una logica. All’altro angolo c’è un pugile per caso: Jake Paul, 27 anni, uno youtuber molto famoso negli Sati Uniti, con 50 milioni di follower, grandi muscoli e una barba lunga e rossa. L’ultimo dubbio è legato alla commissione sanitaria: in Texas l’uso di droga è condannato fortemente e Mike Tyson con la sua spavalderia ha dichiarato di spendere 40mila dollari al mese per fumare erba (oltre a coltivare marijuana terapeutica per affari): se nelle analisi che verranno effettuate domani ce ne sarà traccia nel suo organismo, l’incontro sarà rinviato. Come il 20 luglio scorso quando l’ex campione mondiale dei massimi, forse il più grande picchiatore di tutti i tempi nel mondo del pugilato, aveva marcato visita per un attacco d’ulcera. Tyson non ha più l’età, e in realtà nemmeno un passato da difendere: torna dopo la gloria, la pioggia di soldi, la follia del match contro Holyfield del 28 giugno 1997, quando morsicò il lobo dell’orecchio al suo avversario masticandolo e sputandolo, la droga, le denunce per violenza, il carcere e l’oblio. Ritorna per disperazione più che per soddisfazione: l’ultima volta ha messo i guantoni in una esibizione farsa nel 2020 contro Roy Jones jr. Ma in realtà non combatte un incontro ufficiale dal 2005, e fu una sconfitta. Eppure “Iron Mike” non si sottrae a questa pazza voglia di riapparire. Lui come molti altri, richiamati invece non dall’oro ma perché rivogliono il loro infinito. Tornano perché non si scende mai dal proprio mito. A costo di inciamparci dentro, per trovare certezze nel fatto che sia ancora lì, tra i propri piedi. Andando indietro nel tempo, quando era più facile farlo perché la longevità sportiva si scontrava di meno contro i minorenni terribili di oggi, gli esempi si raccolgono a mazzi. Ci hanno provato tutti: Mark Spitz in vasca a 40 anni, Katarina Witt sul ghiaccio, Edwin Moses in pista, Lance Armstrong in bicicletta. Tornò nel 2001 a 39 anni compiuti e dopo tre stagioni di inattività anche Michael Jordan, stratosferico campione del basket con 6 titoli Nba e terzo realizzatore di tutti i tempi. Aveva provato senza successo a riciclarsi con il baseball, e tornò sotto canestro non per i soldi, che ancora gli uscivano dalle tasche. Rivoleva quella parte di specchio che non lo rifletteva più. Perché i campioni sono fatti così: pochi accettano di portarsi il tramonto dietro la montagna. Vogliono la cima, sempre e comunque. Bjorn Borg, il fuoriclasse svedese del tennis, il 23 aprile del 1991 si presentò al Country Club di Montecarlo con una wild card nella borsa, accanto alla sua racchetta Donnay vintage. Gli organizzatori, increduli del fatto che lo accettasse, gli avevano regalato un invito per il torneo. Quelli che si concedono ai miti che non hanno bisogno di risultati recenti per qualificarsi. Quel giorno “Avvenire” titolò così: Montecarlo, ore 13: c’è uno che dice di chiamarsi Borg. Sembrava impossibile, ma era lui. E scese in campo otto anni dopo essersi ritirato, rispolverando il patrimonio tecnico con cui, tropp o temp o pr ima, aveva ribaltato la storia e il futuro del tennis: il rovescio a due mani, e l’instancabile gioco rigorosamente e solo da fondo campo. Ma Borg quel giorno sembrò una moviola, un film in bianco e nero. Buono per le cineteche, non per fare incassi. Finì lì, o poche settimane dopo, ma la sostanza non cambia. Lo sport per lui, per loro, è e resta una piaga da esibire, un segno del cuscino sulla faccia dopo una notte da incubi. Ulisse che cerca Itaca è il modello cui ispirarsi, ogni ritorno fuori tempo alla fine è comunque un ritorno in scena. Per inseguire l’eco dell’applauso. Per chi non si accontenta. È tornato molte volte sul parquet anche Magic Johnson, 1,2 miliardi (miliardi, non milioni) di dollari di guadagni stimati in carriera secondo Forbes. A 32 anni – era il 1991 – scoprì di essere sieropositivo e gli crollò il mondo addosso. Era l’idolo di tutti, l’icona di uno sport, il più grande di sempre. Perse tutto: salute, fama, sponsor. La sua immagine fu macchiata da una malattia da qualcuno considerata infamante, e pericolosa per chi doveva giocare al suo fianco o contro di lui. Tornò per dignità, per dimostrare che anche un malato come lui poteva avere la forza e il diritto di scendere in campo. Vinse con il Dream Team le Olimpiadi del 1992, ma a molti non andava bene. Lasciò di nuovo. Tornò ancora nel ’96, ma ormai era troppo anchilosato. E ancora nel 1999 con una squadra svedese, prima di rassegnarsi a diventare solo un ricchissimo uomo d’affari con ufficio a Beverly Hills. Lo sport sequestra i corpi. Ne congela l’immagine, ma non perdona, e diventa una pietanza immangiabile se riscaldata male. Specie per chi torna per ricostruire quello che si è disfato, e non ha più né il fisico né le motivazioni mentali giuste. Anche un ring quadrato di pugilato allora può diventare rotondo. E far impazzire la testa di chi, come un criceto, insegue inutilmente il fantasma di se stesso.