ITALIA ALLA RISCOSSA/4. La scuola malata e i prof che resistono per passione
«PRECARIATO E STIPENDIO BASSO NON MI FERMANO»
Sono un neolaureato in Filosofia a Macerata. Non ho mai scartato l’ipotesi di intraprendere la professione di insegnante. All’inizio dell’università consideravo questa scelta come un ripiego alla carriera accademica. Poi le varie ripetizioni che ho svolto per pagarmi gli studi, gli incontri organizzati per aiutare gli studenti delle superiori per la maturità, mi hanno fatto capire che fare l’insegnante, oltre a essere interessante, fosse anche decisivo per la formazione delle coscienze dei ragazzi. Queste esperienze hanno confermato quello che già avevo intuito al Liceo. La filosofia non è astratta, separata della vita. Essa nasce dalla vita e cerca di chiarirla. Ciò è stato chiaro fin da quando ho conosciuto i primi filosofi naturalisti: come non meravigliarsi di chi per primo pone il problema dell’origine del cosmo? E, andando avanti con gli studi, come non rimanere stupiti da Agostino, dove l’asse portante del suo pensiero è la sua stessa esperienza? Ero divenuto problema a me stesso recita un passaggio della Confessioni: niente è più vicino all’inquietudine e alla baldanza che caratterizzano l’adolescenza. È stato grazie a queste letture che ho smesso di seguire strane compagnie che cercavano di farmi credere che il vuoto che uno ha dentro lo colma con delle sostanze. È con questa consapevolezza che ho deciso di intraprendere la strada tortuosa e kafkiana del Tfa. Ho chiaro tutte le difficoltà cui andrò incontro: precariato, stipendio da fame, un lavoro che non gode più del prestigio che aveva in passato. Eppure questo non mi basta, perché io non cerco e non chiedo questo alla vita. Vorrei far conoscere ai ragazzi quello stupore e voglia di vivere che ho incontrato attraverso la filosofia; stupore e meraviglia non acquisibili attraverso Wikipedia o tecniche pedagogiche, ma solamente nel rapporto tra discepolo e maestro di socratica memoria. (Gabriele Codoni, Macerata)
«IL DE BELLO CIVILI E L'IMPREVEDIBILE ISTANTE CHE HA COMMOSSO ME E I MIEI STUDENTI»Insegno lettere al ginnasio in un liceo statale milanese da 15 anni e la mia esperienza di insegnamento, sempre in licei classici, conta ormai 25 anni. Molti sono i momenti in cui ho potuto gustare la bellezza di questo lavoro che amo e che non finisce di appassionarmi. Una bellezza alla quale non sono estranei difficoltà, fatiche e insuccessi, ma che permane come percezione ultima. Vi sono poi circostanze in cui lo spettacolo di un «io» in azione si svela in tutta la sua imponenza nella quotidiana attività scolastica. Ecco un paio di episodi.In una quinta ginnasio, dove insegno latino, quest’anno ho dedicato un’ora settimanale a un’esercitazione di traduzione a prima vista, ovviamente senza il dizionario. Un giorno ho proposto una novità: tradurre un passo di Cesare dopo averlo sentito leggere da me, senza avere il testo sotto gli occhi. Hanno comprensibilmente opposto una certa resistenza che è stata tuttavia vinta dalla fiducia che ho dimostrato di avere nella loro possibilità di farcela.Così, in tre quarti d’ora traducono una quindicina di righe del De bello civili con una proprietà di linguaggio impressionante. Grandissima la soddisfazione. E allora rilancio la sfida: ricostruire a memoria il testo latino con il libro chiuso, loro e io insieme. Per una decina di righe, grazie al contributo di tutti, l’operazione riesce. Ma poi la memoria ci abbandona e anch’io, che avevo il vantaggio di avere letto il testo, non ricordo, manca qualcosa... Dopo vari tentativi faccio il gesto di riprendere il libro per leggere ma vengo fermata da un coro di voci: «No prof, non si arrenda!». Mi sono commossa: quei ragazzi mi avevano superato e nel contempo mi chiedevano di non venire meno al fatto di essere più di loro: un maestro, appunto. Era un «imprevedibile istante» che ci aveva mosso.Altro episodio, sempre in una quinta ginnasio dove insegno italiano. Al suono della campanella dopo l’intervallo mi avvio verso la mia classe dove era in programma la lettura del terzo libro dell’Eneide. Vengo però invitata da alcuni studenti a rimanere fuori dalla classe per qualche minuto. Invitata poi a entrare, mi si presenta uno scenario imprevedibile: una ragazza legge il secondo libro (il bellissimo racconto che Enea fa alla reggia di Didone della notte in cui viene distrutta Troia) con l’accompagnamento musicale di due compagni alla chitarra e al violino. Nel silenzio compreso in cui tutti seguivano la lettura, mi sono commossa per il grado di immedesimazione di quei ragazzi. Ho poi chiesto chi fosse l’autore del brano musicale. Immaginatevi la sorpresa quando mi sono sentita rispondere dal chitarrista: «Prof, l’ho composto io!». (Anna Frigerio)