Agorà

A 70 anni dalla strage. I preti di Stazzema, i ricordi di don Vangelisti

Nazareno Giusti lunedì 11 agosto 2014
Iniziava il tramonto quando don Giuseppe Vangelisti giunse nei pressi Sant’Anna di Stazzema, una frazione della montagna versiliese, in provincia di Lucca. Il parroco, della vicina frazione di La Culla, si trovava insieme a una trentina di persone. Tutti avevano il passo svelto e il respiro affannato, non tanto per la strada in salita quanto per la preoccupazione che era stata loro compagna per tutto il viaggio: erano arrivate strane voci su quello che era successo la mattina del giorno prima a Sant’Anna. La conferma di quelle voci la ebbero già prima del paese: trovarono, infatti, a terra, due ragazze morte, sulla porta di un mulino, sul retro del quale giaceva il proprietario, in una pozza di sangue. Poco dopo una donna, trucidata, vicino a un ruscello. Poi, piano piano, più si avvicinavano al paese, più nelle narici arrivava un odore violento: quello di carne bruciata, di putrefazione, di morte. Seguendo quel terribile olezzo giunsero nella piazza del paese dove li attendeva uno spettacolo inimmaginabile: una massa di cadaveri ammassati, l’uno sull’altro, quasi irriconoscibili. Una visione infernale che fu resa ancora più incredibile dall’arrivo di un uomo barcollante con gli occhi allucinati che pareva un fantasma. Il curato lo riconobbe: si trattava di Antonio Tuccini, tenente di Marina originario di Foligno, sfollato assieme ai suoi familiari (la moglie e otto figli) che erano stati tutti uccisi e ora anche lui voleva seguirli. «Lo tenni per la giacca ma non trovai le parole per confortarlo», annotò nelle sue memorie Vangelisti. Furono 560 le vittime della strage nazista avvenuta il 12 agosto 1944 a Stazzema e nelle frazioni limitrofe. Un eccidio di civili, di vittime inermi, senza colpa. Donne, vecchi, bambini. Anna aveva appena 20 giorni. Fu "seppellita" in una scatola da bambole. Anche se non era lei la creatura più piccola morta nella strage: infatti, era stato ucciso anche un non nato. Tolto dal ventre della madre, ancora legato al cordone ombelicale, era stato messo sul tavolo. Il primo a vedere questa scena fu Elio Toaff, futuro rabbino capo di Roma, tra i trenta che erano saliti assieme a don Vangelisti, che anni dopo ricordò: «Entrai in una stanza e vidi una donna seduta, mi avvicinai per chiedergli come stava, ma mi accorsi che aveva la pancia squarciata». Tra i tanti morti, c’era anche don Innocenzo Lazzeri , parroco di Farnocchia (località data alle fiamme pochi giorni prima), sfollato a Sant’Anna e già ricercato dai tedeschi perché sospettato di essere in contatto con i partigiani, che riceverà poi la Medaglia d’oro al valor civile alla memoria. Era lui che aveva tentato di impedire quella strage compiuta dai soldati delle Ss che erano giunti in paese, divisi su quattro colonne, dopo aver raggruppato gli abitanti delle altre frazioni limitrofe. Tra questi tanti sfollati. Infatti, Sant’Anna, era ritenuto posto sicuro. Faceva parte della così detta "zona bianca". Un luogo, quindi, in cui rifugiarsi. «Nessuno si immaginava una cosa del genere - spiega Enio Mancini che, all’epoca dei fatti, aveva sette anni -. Mio padre quando arrivò l’avviso che stavano arrivando i nazisti, prima di andare in montagna a nascondersi, ci disse di stare tranquilli: a noi non avrebbero fatto niente. Si raccomandò solo di cercare di svuotare la casa: pensava che i nazisti avrebbero dato fuoco alle nostre povere abitazioni, come avevano fatto in altri luoghi». Ma a Sant’Anna non bruciarono solo le case ma anche le persone. Enrico Pieri, presidente dell’Associazione dei Martiri, che a quel tempo aveva dieci anni, racconta: «A differenza di gran parte degli adulti maschi del paese, mio padre, mio nonno e i miei zii, pur consapevoli dei rischi che correvano, decisero di rimanere, perché il giorno prima, aveva ammazzato una mucca, che all’epoca significava mangiare per tanti giorni e, quindi, la salvezza. Eravamo tutti in casa, attorno al desco, quando arrivarono i nazisti. Ci spinsero verso la piazza del paese, davanti alla chiesa. Poi, a seguito di un contrordine, ci fecero entrare nella cucina della famiglia Pierotti. Lì, appena fummo tutti dentro, iniziarono a sparare. Io mi salvai solo perché una della bambine Pierotti, Grazia, di 13 anni, mi chiamò dal sottoscala. Mi nascosi lì con lei. Rimanemmo in silenzio anche dopo che i tedeschi furono usciti e anche quando appiccarono un fuoco nella stanza. Quando sentimmo che fuori non c’erano più rumori, uscimmo, sani e salvi ma i componenti delle nostre famiglie erano tutti morti. Tutti». Le vittime di Sant’Anna rimasero per decenni senza giustizia. Sino a quando, negli anni Novanta, il procuratore Antonio Intelisano, durante alcune ricerche, scoprì il famoso "armadio della vergogna". Dentro vi erano una serie di fascicoli su varie stragi (tra cui quella del paese versiliese) con "archiviazione provvisoria": a fine guerra, con il mutare degli equilibri internazionali e con la Guerra fredda andavano superate le ferite del conflitto. In breve tempo, si arrivò al processo presso la Procura militare di La Spezia che portò all’ergastolo per 10 graduati tedeschi. Una sentenza confermata, poi, in Cassazione, nel 2007. Lentamente, nel corso dei decenni, inoltre, Sant’Anna, grazie a un lavoro costante di memoria è riuscita a far uscire la sua storia dall’oblio a cui, sembrava, destinata. Nel 2010 Enio Mancini ha abbracciato, a Roma, presso il Goethe Institut, Jochen Kirwel, il nipote del soldato tedesco che, in quel tragico 12 agosto, gli salvò la vita, Peter Bonzelet. «È stato un momento toccante, bellissimo. Io sono vivo grazie a suo nonno. Quel giorno del 1944, infatti, io assieme ad altri bambini e ad alcuni miei familiari, fummo affidati, non si sa perché, a questo giovane soldato che non avrà avuto nemmeno vent’anni. Doveva portarci appena fuori dal paese e ucciderci. Quando i suoi camerati se ne furono andati, però, ci fece capire, a gesti, di correre via, di scappare. Dopo un attimo di smarrimento, ci muovemmo e iniziammo a correre. Non avevamo fatto nemmeno cento metri quando sentimmo sparare. Pensammo ci stesse uccidendo ma non era così: girandoci, scorgemmo che il soldato sparava in cielo, per far credere ai suoi di averci ucciso. Noi ci nascondemmo, mentre lui tornava dai suoi camerati. Insomma, anche in quella immane tragedia, in quella notte delle coscienze, ci fu una piccolissima, ma importante, luce di umanità».