Jeffrey McNeely, classe 1944, laureato nel 1967 in antropologia all’Università della California, in Italia potrebbe dirsi quasi uno sconosciuto. Stupisce che nessuno dei suoi circa quaranta libri sia mai stato tradotto (ha scritto anche circa cinquecento articoli scientifici su riviste). McNeely è uno dei maggiori studiosi della biodiversità: lavora alla Iucn ((Unione internazionale per la conservazione della natura) dal 1980, e oggi ne è tra i più qualificati consulenti. In particolare, guida il network internazionale per la tutela del patrimonio naturale che riunisce oltre mille realtà istituzionali e diecimila specialisti della conservazione biologica. McNeely scende a Mantova, dove questa mattina alle 10 parla di come salvare la natura, ridurre la povertà e favorire lo sviluppo. Bingo, verrebbe da dire: ecco uno che ha trovato la ricetta per risolvere il nostro grande problema: consumare senza distruggere, vivere bene, ma distribuendo equamente le risorse. Se è vero che sostenibilità, biodiversità, salvaguardia dell’ambiente sono diventati il nostro alfabeto quotidiano, è anche vero, come diceva qualcuno, che «il mercato è diventato esperto di vita sana». Nel senso, che qualità della vita e ambiente sono diventati un business. Il fatto è – mi dice McNeely – che «se ti guardi intorno ti accorgi che dove c’è biodiversità c’è vita più sana». E dov’è questo paradiso? «Dove vivono i più poveri», risponde McNeely. «Di solito sono indigeni che vivono nelle foreste ncontaminate e sanno molto bene che la biodiversità è la fonte della loro sopravvivenza».
Ma allora quelli che dicono – come sosteneva il naturalista Thomas Huxley – che la natura è in grado di rigenerarsi da qualunque ferita che l’uomo possa infliggerle, per cui è inutile preoccuparsi troppo della varietà biologica, sono ultras del darwinismo? «Il problema non è se il Pianeta sia a rischio sopravvivenza, ciò che viene insidiato da un rapporto sbagliato con la natura è il nostro modello di vita. Vogliamo un Pianeta dove magari sopravvivono solo piccioni e topi, oppure vogliamo anche pappagalli, tigri e ippopotami? Vogliamo un’Italia dove si mangia pomodoro oppure senza pomodori? Ciò che è a rischio è il nostro attuale modello di benessere, saremo costretti a stili di vita più poveri e semplici».
Questo è l’Anno della biodiversità proclamato dall’Onu. Nel 1992 a Nairobi venne ratificata la Convenzione sulla biodiversità, alla quale a tutt’oggi hanno aderito quasi duecento Paesi. Che cosa manca ancora? «A ottobre a Nagoya in Giappone, si terrà una conferenza degli Stati dove la Convenzione per la biodiversità dovrà decidere come ripartire i guadagni che possono venire da un uso corretto delle risorse. Ne avranno un beneficio i Paesi in via di sviluppo, ma anche quelli sviluppati. Ancora oggi questa equità non c’è: noi abbiamo benefici, magari nella produzione di medicinali, e chi nei Paesi più poveri ha scoperto le piante che servono a produrli rimane a bocca asciutta, non ne ha alcun guadagno. A Nagoya, finalmente, dovrebbero firmare anche i governi che erano più contrari a riconoscere benefici economici a chi fornisce queste risorse».
In pratica che cosa accadrà? «A Kyoto si era sottoscritto un Protocollo dove si doveva limitare la produzione di anidride carbonica prodotta dalla grande deforestazione. A ottobre si deciderà come e quando pagare ai governi più poveri e produttori di quelle sostanze una quota significativa chiedendo loro di fermare l’abbattimento degli alberi, e noi ci guadagneremo in cambio un’acqua più pulita. La stessa logica vale nella produzione di medicinali. Entrambi, dunque, avremo dei vantaggi».
Chi era contro questa logica? «Soprattutto le multinazionali farmaceutiche, che vedono ridotti i propri profitti, e alcuni governi contrari a sborsare soldi. Si tratta di un accordo che prevede stanziamenti per miliardi di dollari da parte dei soggetti più ricchi, ma questo consentirà ai più poveri di avere fonti di guadagno. Resta l’incognita, naturalmente, di come impiegheranno questi guadagni i governi che ne beneficeranno: distribuiranno equamente questa ricchezza alle loro popolazioni? Le industrie farmaceutiche erano restie a sborsare denaro perché dicevano: noi facciamo enormi investimenti per la produzione di farmaci di cui soltanto una minima percentuale supera i test per essere poi commercializzata, quindi dobbiamo recuperare i nostri stanziamenti. L’accordo che si dovrà firmare a ottobre prevede allora che i governi dei Paesi più poveri non vengano pagati in anticipo ma ricevano delle royalties sull’ammontare dei farmaci venduti».
La questione della biodiversità ha anche risvolti contraddittori se si pensa alla polemica suscitata dai biocarburanti e dall’aumento dei prezzi del grano e delle farine...«Ho studiato a lungo questo problema, ho lavorato come consulente di vari governi e penso di poter dire che il problema è quello del rapporto fra prezzo dell’energia e prezzo del cibo. Le popolazioni rurali, se si continua così, non potranno più produrre e dovranno comprare alimenti. La vera risposta sta nel migliorare la qualità dei mezzi per produrre energia: nel giro di pochi anni ci arriveremo. Si pensi, per esempio, quanto può venire dalla produzione di certe alghe che contengono olii combustibili per oltre il 70% della loro massa e possono essere coltivare anche in condizioni non adatte all’agricoltura: alcune, per esempio, possono utilizzare l’anidride carbonica prodotta da una centrale a carbone, prendendo come si suol dire due piccioni con una fava».