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Caritas in veritate è un’enciclica ricca di speranza che potrà sorprendere chi si attendeva solo un elenco di critiche, mentre la speranza guarda lontano verso cose necessarie ma ardue. Un suo punto di vertice, finora poco avvertito, è quello in cui il Papa tocca uno dei massimi nodi della situazione mondiale ed un nucleo che presiede alla vita dei popo-li: la chiave politica (n. 67). La crisi attuale, da tanti sentita quasi solo come finanziaria, possiede profonde radici politiche: se le istituzioni economiche e finanziarie mondiali hanno funzionato male, almeno altrettanto è capitato per le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali. Le grandi difficoltà planetarie hanno molti nomi: povertà (insieme alla fame, monta l’enorme problema della sete e dell’accesso all’acqua: un vero diritto, sinora non riconosciuto e invece elencato dall’enciclica), guerre, corsa agli armamenti, crisi energetica ed ecologica. È impensabile che un tale fascio di problemi di dimensione mondiale possa essere avviato a soluzione senza un grande disegno che sbocchi in un’autorità politica mondiale: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII», ed organizzata secondo sussidiarietà (n. 67). Occorre un’organizzazione sovrastatale planetaria, resa necessaria dall’esistenza di un bene comune universale che non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata. Anche in questo campo decisivo
Caritas in veritate applica il criterio della tradizione che si evolve nei nuovi contesti, riprendendo e rilanciando le preziosissime acquisizioni di Pacem in terris. Secondo l’enciclica giovannea «i poteri pubblici delle singole Comunità politiche, posti come sono su un piede di uguaglianza giuridica fra essi, per quanto moltiplichino i loro incontri e acuiscano la loro ingegnosità nell’elaborare nuovi strumenti giuridici, non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi adeguatamente; e ciò non tanto per mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una loro deficienza strutturale », per il dislivello incolmabile tra l’attuale organizzazione e le esigenze obiettive del bene comune universale. I nuovi problemi a dimensioni mondiali non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di autorità politiche aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni e in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale». Nell’arco di tre anni (1963-65) Giovanni XXIII con la Pacem in terris, Paolo VI col discorso del 1964 all’Onu e il Concilio con la Gaudium et spes, parlando all’unisono, hanno gettato le basi di una filosofia politica postmoderna, di cui il pensiero è per secoli rimasto privo anche nei suoi rappresentanti più illuminati come Kant, mentre la sua linea prevalente (Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Hegel, eccetera) andava in direzione contraria. Adesso Benedetto XVI ripropone questo essenziale filo conduttore. Circa 15 anni prima della Pacem in terris, Jacques Maritain con L’uomo e lo Stato aveva aperto il cammino, affermando la necessità di un’autorità politica mondia- le che non si limitasse alla riforma dell’Onu, certo necessaria ma viziata dal fatto (semplice ma radicale) che l’Onu è un’associazione di Stati sovrani che sui punti più essenziali non rinunciano alla loro sovranità, garantendosi ad esempio ad ogni costo il preteso diritto di dichiarare guerra. Il lavoro, pur prezioso, dell’Onu non può arrivare alla radice del male e resta inevitabilmente precario, per il fatto che esso è un organismo creato e messo in moto dagli Stati, di cui non può che registrare le decisioni (in specie di quelli più potenti). L’ostacolo grande che impedisce l’avvio a soluzione dei grandi problemi della famiglia umana è la mancanza di organizzazione politica del mondo che, perpetuando l’anarchia e l’irresponsabilità internazionali, rende vani tanti progetti di miglioramento. In mancanza di ciò si deve certo ricorrere al multilateralismo, consapevoli però dei suoi limiti intrinseci. Collocandosi ad un livello di penetrazione particolarmente felice che non è dato riscontrare in importanti pensatori del ’900, la dottrina sociale della Chiesa rappresenta il futuro più autentico della politica. Hans Kelsen avvertì il rischio mortale rappresentato dalla sovranità, ma non andò oltre un progetto di organizzazione solo giuridica della società mondiale, oltretutto minato dal suo drastico positivismo giuridico che esclude ogni diritto naturale. Nelle sue ricerche sulla guerra e sulla pace Norberto Bobbio sviluppò il rilievo delle istituzioni politiche, senza però giungere all’idea di un’autorità politica mondiale, di cui diffidava poiché la pensava del tutto hobbesianamente come un superstato monocratico senza alcuna sussidiarietà. Recentemente Jurgen Habermas ha ripreso il progetto kantiano per la pace perpetua, senza a mio avviso andar oltre la sfera pur essenziale del diritto per entrare in quella della politica. Sono le categorie stesse della politica moderna (sovranità indivisibile, potere, conflitto) e il suo paradigma, spesso centrato solo sulla forza, ad essere inadeguati, mentre la dottrina sociale della Chiesa riposa sui cardini di bene comune, autorità, giustizia, sussidiarietà, solidarietà. Anche da questo lato essa mostra la necessità di uscire dallo schema hobbesiano ed hegeliano, retaggio infelice della modernità, per un nuovo inizio.