Storia. L'epopea dei Normanni, i vichinghi che si innamorarono della Sicilia
Un episodio dell'arazzo di Bayeux
La letteratura storiografica sui normanni è immensa e comprende opere d’ogni genere e di qualunque livello: dalle severe trattazioni scientifiche ai volumi di ampia sintesi alle biografie dei personaggi più illustri – soprattutto Roberto il Guiscardo, i primi due Guglielmi d’Altavilla re di Sicilia, Riccardo Cuordileone re d’Inghilterra – fino ai libri per ragazzi e per bambini e alla pletora di “romanzi storici” tra i quali vanno annoverati quelli celeberrimi di Walter Scott che hanno invaso anche il grande e il piccolo schermo.
Normanni, “uomini del nord”. Questa l’espressione bassolatina Nordmanni, ordinariamente usata fino dall’età carolingia (secoli VIII-X) per indicare le genti germanosettentrionali, o germano-scandinave, che impropriamente vengono spesso definite “vikinghe” se danesi, norvegesi o norrene (vale a dire norvegesi-islandesi) oppure “variaghe”: il che induce di solito gli studiosi che ne fanno oggetto di scritti di sintesi diacronica a seguire le vicende di quei gruppi tribali fin dalla loro preistoria – quindi dall’età pagana, peraltro ricca di una sua letteratura poetica oralmente tramandata ancorché tardivamente fissata per iscritto – e quindi nei loro viaggi soprattutto marittimi e nelle loro avventure e conquiste incentrate sui secoli IX-X.
Va comunque notato al riguardo che i danesi e i norvegesi avrebbero propriamente l’appellativo di “vikinghi” solo se abitanti dei vici (wik, plurale wikar), vale a dire degl’insediamenti costieri posti sulle coste artiche o baltiche della penisola balcanica e di solito riparati da correnti e tempeste in quanto collocati verso il fondo delle lunghe, lunghissime baie dette “fiordi”: tanto lunghe da servire spesso da estuari di corsi d’acqua dolci e da venir talvolta confuse con veri e propri fiumi, caratterizzati però da acqua salata. Pescatori e pirati, ben distinti dal resto della popolazione scandinava costituita da agricoltori, essi erano costretti a passare buona parte dell’anno stretti (anzi, letteralmente prigionieri) nei loro villaggetti costieri: e solo nella buona stagione, allorché il ghiaccio marino si scioglieva, potevano partire a bordo dei loro lunghi e leggeri scafi di legno di abete, a remi, a vela quadra fissa e privi di ponte, ed evitando abilmente gli iceberg vaganti sul mare giungere fino alle isole britanniche, alle coste continentali del mare del nord, forse a Terranova e quindi in America nonché naturalmente in Mediterraneo dove esercitavano le attività di mercanti (anche di schiavi) e di pirati.
Le loro imbarcazioni, che per la forma evocavano le fantastiche immagini dei “serpenti marini” i musi dei quali erano colorati e scolpiti sulle prore, erano appunto detti drakkar (plurale di drak, termine norreno per indicare il draco, il serpente di mare). Le saghe norrene (la lingua parlata dai norvegesi che si erano insediati nelle isole islandesi), vale a dire i canti epicomitici ed epicomagici composti dai poeti detti “scaldi”, vennero raccolte tardivamente in età cristiana – quindi dopo il X-XI secolo; un discorso a parte meriterebbero le due composizioni più lunghe entrambi definite “Edda”, quella in versi (un insieme di saghe) e quella in prosa (lunga composizione a carattere mitico-genealogico-cronistico) che dal nome del suo autore viene indicata come Edda di Snorri. Le loro scorrerie, caratteristiche della fase di relativo disgelo delle acque marine con l’avvio del lungo periodo di optimum climatico tra IX e XIV secolo (oggi ne stiamo attraversando un altro, con il ripetersi di quella sinusoide), furono il terrore delle popolazioni cristiane e musulmane insediate sulle coste del Mare del Nord, del Mediterraneo e perfino dell’Atlantico a sud delle Colonne d’Ercole (“a furia Nordmannorum libera nos, Domine”).
Di solito, la storiografia dedicata ai normanni si avvia con più o meno lunghe esposizioni dell’ “era vikinga”, precedente cioè la cristianizzazione: il tempo del dominio danese su buona parte dell’Inghilterra e di quello di un gruppo di norvegesi guidate da un capo danese, il principe Rollone, che il re dei franchi occidentali (è ancora un po’ presto per definirli tout court “francesi”) Carlo il Semplice, dopo aver subìto le razzìe delle sue terre messe a ferro e fuoco, accolse infine (stiamo parlando della prima metà del X secolo) come suo alleato e addirittura genero – concedendogli la mano di sua figlia Gisella – concedendogli in feudo in gran parte delle terre a nord e a nordovest di Parigi, fino alla penisola di Armorica detta “Bretagna” e al Maine. Nasceva così la gloriosa Normandia, eretta in ducato e da dove sciamarono nei decenni successivi gruppi familiari di cavalieri ormai francofoni alla ricerca di gloria, di nuove terre e di ricchi bottini: il grande duca Guglielmo (detto appunto “il Conquistatore”) conquistò nel 1066 l’Inghilterra della quale si fece re sino alla fusione durante il secolo XII della sua stirpe con quella aquitano-angioina dei Plantageneti. Frattanto altri nobili e avventurosi casati s’impadronivano di mezzo Mediterraneo: altri ancora alcuni di loro s’insediarono nel nord della penisola iberica, nell’Italia meridionale (i celebri, gloriosi e un po’ famigerati Altavilla divenuti nel secolo XII re di Sicilia), nell’impero bizantino le coste del quale fecero oggetto di frequenti incursioni e perfino in Asia minore (durante al prima crociata il principe Boemondo d’Altavilla conquistò Antiochia e ne fece sede di un grande ducato siriaco) e sulla costa tunisina, a lungo soggetta se non proprio a conquista quanto meno a tributo.
Le loro imprese, le loro conquiste, le loro realizzazioni artistiche (dal famoso “arazzo di Bayeux” a una speciale architettura romanico-gotica ben connotata con molte variabili tra Italia peninsulare e insulare e regno “crociato” siropalestinese), i loro codici giuridici, la loro letteratura. Questa lunga avventura mozzafiato ci viene adesso riproposta nel fluviale, generoso libro di Levi Roach, universitariamente parlando figlio di Cambridge e di Heidelberg (se sapesse quanto lo invidio!) e ora docente nell’Università di Exeter. I normanni. Storia dei conquistatori d’Europa, traduzione di P. Marangon, Mondadori, pagine 353, euro 28,00) “si legge come un romanzo”, e questo, ve l’assicuro, non è un modo di dire. Non manca però una robusta, corposa serie di note critiche, filologicamente irreprensibili.
Qualcuno lamenterà tuttavia che manchi di quello che avrebbe potuto essere un primo capitolo dedicato ai vichinghi pagani, ai loro miti, alle loro gesta. Qualcun altro si meraviglierà invece ch’esso si apra con il 1212 e l’incoronazione a “re di Germania” (legittimo candidato quindi alla corona imperiale, conseguita tre anni dopo) di Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia e poi noto come Federico II imperatore: ch’era tedesco-meridionale per parte del padre Enrico VI (a sua volta figlio di Federico I, il “Barbarossa”) e normanno solo per parte di madre, Costanza d’Altavilla figlia di Ruggero II d’Altavilla re di Sicilia. Il bambino, nato in viaggio a Jesi nelle Marche il 26 dicembre 1194 (alter Christus o “Anticristo”?), era figlio pertanto di una quarantenne: cosa rara a quei tempi; sarebbe stato battezzato Federico Ruggero e secondo Roach avrebbe mostrato per tutta la vita lo humour, il genio e l’intelligenza della stirpe normanna per quanto Goering, nel 1943, avesse ordinato alle truppe tedesche in ritirata dalla Sicilia d’impadronirsi del suo sarcofago di porfido contenente le illustri ossa e traslarlo in Germania. La biografia di Federico II scritta da uno studioso pur ebreo-tedesco, Ernst Kantorowicz, era un libro-cult per i nazisti in quanto svolgeva il tema esoterico e romantico (illustrato dal poeta Stefan George) del geheimes Deutschland, la “Germania segreta”. Ma per narrare quest’altra storia ci vorrebbe un altro libro.