Idee. I Musei Vaticani come laboratorio per il futuro
Da ormai un ventennio i musei di tutto il mondo si trovano ad affrontare una radicale trasformazione. L’idea che l’arte occidentale sia l’unica a essere degna di questo nome è stata demolita dall’ispirazione che gli artisti tra le due guerre mondiali hanno tratto dalle opere che giungevano in Europa dall’Africa, dal Pacifico e dall’Asia. Negli anni ’80 si è sempre più affermata l’idea che l’arte sia un fenomeno universale. Lo sconvolgimento ha colpito alcuni luoghi “sacri” dell’arte, come il Louvre o il British o il Metropolitan Museum. Le opere le opere delle altre culture, dell’arte primaria, una infelice definizione inventata da Jacques Chirac, vi sono entrate a pieno titolo accanto ai capolavori del Rinascimento o del Novecento. Lo stesso sconvolgimento ha colpito in misura maggiore i musei etnologici, oggetto dalle rivendicazioni dei popoli a cui è stato sottratto il proprio patrimonio. Negli anni ’90 il British Museum si è rifiutato di restituire alla Nigeria i bronzi che furono saccheggiati nel 1897 dal palazzo reale del Benin: opere di un inestimabile valore di cui gli inglesi erano ben consapevoli. La Germania, il Belgio e Macron sono stati più pronti e hanno dichiarato di essere aperti a un regime di restituzioni. Alcuni artisti africani hanno cominciato a rubare “platealmente” opere africane o del Pacifico dai musei europei, rivendicandone la proprietà. Negli ultimi anni sono stati soprattutto i popoli indigeni del Canada a chiedere il rimpatrio non solo dell’enorme patrimonio degli indiani della British Columbia ma anche dei resti dei propri antenati, saccheggiati da inglesi e canadesi insieme ai manufatti che li accompagnavano. L’Italia sembra fuori dalla tempesta, eppure abbiamo anche noi un vasto patrimonio che viene dal periodo coloniale nostro ed europeo. In Vaticano c’è un immenso museo d’etnologia che contiene 80mila oggetti provenienti dall’opera secolare dei missionari nel mondo. Una gran parte è costituita da donazioni fatte ai papi. Il Museo Etnologico, ribattezzato in occasione della riapertura nel 2019 “Anima Mundi”, possiede, ad esempio, i rarissimi manufatti del popolo patagonico dei Yamuna, raccolti dal missionario Martin Gusinde all’inizio del Novecento, e una grande quantità di opere di piumaggio tra cui gli importantissimi wampum dei nativi del Nord America. Il Museo ha riaperto con una serie di mostre, tra cui una sui popoli amazzonici dichiarandone l’importanza come culla dell’umanità, e si è fatto promotore di iniziative in cui l’afflato universale della Chiesa rivendica i diritti dei popoli indigeni. È proprio in questo senso che oggi potrebbe assolvere a una nuova funzione. È probabile che anche il Museo Anima Mundi dovrà affrontare la questione della restituzione di parte delle proprie collezioni. È già accaduto ad esempio con una tsansa, testa umana di ridotte dimensioni usata a scopo rituale dalla tribù amazzonica degli Jivaro, rimpatriata recentemente in Ecuador. L’ottica non è quella della “attesa” che qualcuno le rivendichi ma quella del ripensamento generale del senso stesso del Museo, da luogo del “display” delle opere a quello di attivo costruttore di relazioni. Ogni restituzione è l’occasione per cercare e costruire un dialogo che arricchisca il museo stesso, trasformandolo in un “cantastorie” delle vicende che, nel bene e nel male, collegano la Chiesa con i popoli indigeni di altri continenti. Raccontare i legami del mondo missionario con il colonialismo è qualcosa che risponde allo spirito con cui papa Francesco ha chiesto perdono ai popoli indigeni. In più, come già in altri musei, c’è la prospettiva di arricchire di ricerche, collaborazioni, scambi e arrivi di opere degli artisti indigeni e nativi contemporanei in sostituzione di quelli restituiti. In particolar modo è nei confronti dei popoli africani che il Museo Anima Mundi potrebbe avere una funzione fondamentale, trasformandosi in un polo di relazione con le nuove generazioni di africane, con i suoi ricercatori e artisti. Il carattere particolare del museo vaticano può narrare gli incontri tra la Chiesa missionaria e le altre culture come un laboratorio che ha arricchito la sensibilità stessa della Chiesa (è presente una notevole collezione di plastici di chiese in stile indigeno e vi sono delle preziose madonne “dagli occhi a mandorla” che datano dai tempi delle missioni gesuite in Giappone). Credo sia proprio nella natura di un museo così importante porsi al servizio di una nuova relazione con le culture e i popoli che sono state vittime di veri e propri genocidi culturali.