Idee. I musei tra memoria e progresso
Charles Willson Peale, “L’artista nel suo museo”, particolare (1822)
Il rapporto tra società e memoria è divenuto questione cruciale nel dibattito politico e filosofico degli ultimi anni, un tema che inevitabilmente coinvolge il patrimonio culturale e la sua gestione. Il confronto sulla decolonizzazione, insieme alle controverse vicende legate alla cosiddetta cancel culture, hanno evidenziato la centralità svolta dai musei in questo complesso scenario. Il libro di Evelina Christillin e Christian Greco, Le memorie del futuro. Musei e ricerca (Einaudi, pagine 144, euro 12,00), rende la riflessione tanto più interessante proprio perché considerata dal punto di vista di un grande museo archeologico come l’Egizio di Torino. Si dispiega così il tempo lungo, millenario, di una civiltà apparentemente cristallizzata nella storia, posta in dialogo con il dinamismo frenetico di una modernità tragicamente smarrita, stretta tra scontri culturali ed emergenze planetarie. Ampliando lo sguardo, gli autori illustrano la complessità dei temi che oggi travolgono l’istituzione museale: prima fra tutte è quella della legittimità delle raccolte – in molti casi acquisite a seguito di azioni di guerra, spoliazioni o semplici condizioni di vantaggio –, a cui si lega inevitabilmente la narrazione che intorno a quelle raccolte è stata articolata. Attingendo al pensiero di Hegel, Greco e Christillin insistono sulla relazione di agency che fa dialogare uomini e cose e riconoscendo a queste ultime una capacità di intervento sulla rappresentazione che l’attualità elabora di se stessa e del tempo passato. Ed è in questa chiave che giustamente gli autori attribuiscono alla ricerca il ruolo di una «raffinata forma di ascolto», capace di leggere le istanze del presente dando risposte che nascono dalla comprensione della storia intesa come indagine – che sia la più onesta possibile - sulla verità.
Compito primario del museo è quello di facilitare la comprensione del passato, creando strade di lettura e di godimento del nostro patrimonio, senza disconoscere - e questo è un punto sostanziale - la propria natura di luogo di pensiero. La questione della partecipazione dei pubblici, su cui molto si è discusso e si continua a discutere, non può e non deve tradursi in una rinuncia dell’istituzione alla propria responsabilità critica e interpretativa. È il museo, con le sue competenze e in ossequio alla sua stessa missione istituzionale, a dover creare le condizioni di un accesso democratico all’esperienza culturale. Il dibattito va al di là dell’ambiente degli addetti ai lavori e tocca tasti profondi della riflessione globale sul modello di società che vorremmo perseguire per il nostro futuro. L’attenzione rivolta ai musei rappresenta di fatto un bisogno diffuso del fare chiarezza sul rapporto tra società e cultura, tra progresso e sostenibilità. Con grande profondità Paul Ricoeur si è soffermato, in testi divenuti imprescindibili rispetto a tali tematiche, sulla natura e sulla costruzione della memoria collettiva, evidenziando soprattutto la qualità dinamica del ricordo di una comunità. Tale processo, precisa Ricoeur, si attiva principalmente attraverso il delicato esercizio dell’interpretazione, ovvero di quel percorso di attribuzione di senso che è posto in carico, prima di tutto, alle istituzioni culturali. E non sarà secondario, dice Ricoeur, precisare che il ricordo/scrittura storica può tradursi a volte in un atto compassionevole – proprio come quello che rende necessario il rito della sepoltura – che tende a svelare e a custodire il passato.
Affrontare il problema della memoria riguarda peraltro anche il fenomeno dell’oblio: un processo che può essere imposto (deprecabilmente), ma che può essere a volte desiderato nella prospettiva benevola di un atto di pacificazione. Il museo è, più di ogni altro, il luogo deputato alla gestione della memoria, capace di comunicare il passato più scomodo attraverso un linguaggio che sappia conciliare e spiegare. Non a caso, la visione plurale di memoria collettiva proposta da Ricoeur è preliminare alla sua immagine di coesione sociale, ed è su questa capacità di leggere il passato come intreccio di prospettive diverse che il museo può contribuire a valorizzare la storia in quanto dimensione di incontro e non di separazione.
Greco e Christellin si riferiscono al museo come «teatro della memoria». Al di là dei richiami eruditi alle pratiche della mnemotecnica, ci sono molte immagini che si potrebbero associare a tale espressione. Tra le altre, vi è un dipinto del 1822 che raffigura il collezionista americano Charles Willson Peale in un atteggiamento di evidente compiacimento, mentre solleva una pesante tenda rossa (in effetti, molto simile a un sipario) che si apre sul suo museo di naturalia. Rispetto ad altre rappresentazioni analoghe, come il seicentesco ritratto di Lord Arundel che mostra la sua galleria attraverso una soglia del tutto invalicabile per lo spettatore, il gesto di Peale esprime un desiderio di condivisione e di riconoscimento che fa del museo uno “spazio pubblico”, ma anche un luogo concepito per offrire intrattenimento. La tenda che il collezionista solleva equivale all’abbattimento di un limes: il museo confina con il mondo e lascia che il mondo entri dentro di sé, perché è dal mondo che arrivano i suoi tesori. Ed è lungo quel confine che si matura l’incontro tra il singolo e la comunità, in un rito di riconoscimento delle identità e dei valori che trasforma il passato nel laboratorio più idoneo a progettare il futuro.