La special adviser Onu. Nderitu: «Contro i genocidi i media diano voce alle vittime»
Alice Wairimu Nderitu al Giardino dei Giusti di Milano
Dal 10 novembre 2020 lo special adviser per la prevenzione dei genocidi delle Nazioni Unite è la kenyota Alice Wairimu Nderitu. Inserita nel 2023 tra le 100 donne africane più influenti da “Avance Media”, prima di essere scelta da António Guterres per implementare le strategie dell’Onu per prevenire i genocidi, Nderitu ha partecipato ad alcuni dei principali processi di riconciliazione nelle aree di conflitto del continente africano. In vista della Giornata europea dei Giusti, martedì scorso ha visitato il Giardino dei Giusti di Milano e ragionato con i membri della Fondazione Gariwo sulle strategie di prevenzione dell’odio e su come denunciare i “crimini dei crimini” e cercare coloro che in quei contesti salvano vite umane sia, in fin dei conti, estremamente correlate.
La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio è stata approvata nel 1948, alla fine della Seconda Guerra Mondiale e in seguito alla Shoah. Considera questo testo inviolabile o ritiene che parte di esso e la stessa definizione di genocidio possano essere modificati?
«L’attuale definizione di genocidio non è propriamente quella che il suo creatore Raphael Lemkin aveva in mente. Lui voleva una definizione più ampia che includesse esplicitamente anche il genocidio culturale, il tentativo di distruggere il modo di vivere delle persone».
La definizione di genocidio concertata dai membri delle Nazioni Unite è invece molto più stringente.
«E oggi cambiare la Convenzione sul genocidio per adattarla a una definizione più ampia sarebbe molto difficile. Per arrivare a una risoluzione delle Nazioni Unite serve un lunghissimo processo di consenso. Tutti gli Stati membri devono concepirlo come un dare e avere ed essere d’accordo. Per quanto riguarda il genocidio, ad esempio, abbiamo pochissime risoluzioni perché è considerato un argomento molto delicato, in cui si discute anche su dove posizionare una virgola o un punto. Tanto vale concentrarsi sulla definizione attuale e capire in che modo è stata utile».
Ci faccia alcuni esempi.
«In Ruanda delle persone sono state condannate per il crimine di genocidio. Si è usata quella definizione, così come è successo per l’ex Jugoslavia. Poi ci sono alcuni paesi che, nell’“addomesticare” la Convenzione sul genocidio, ne hanno ampliato il significato».
In che modo si vuole “addomesticare” la Convenzione?
«Nell’applicazione “domestica” della Convenzione molti gruppi vogliono essere aggiunti tra le entità da proteggere. Così dei Paesi hanno aggiunto gruppi politici tra quelli da proteggere, in modo da perseguire le persone per genocidio. E non sempre sappiamo se in queste interpretazioni ci siano pregiudizi politici. Come Onu, seguiamo quanto concordato dai Tribunali penali internazionali, composti da pubblici ministeri e giudici di tutto il mondo. Così come abbiamo avuto Norimberga per l’Olocausto, ci sono stati il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, quello per l’ex Jugoslavia e così via».
A proposito di tribunali, ritiene che il procedimento avviato dal Sudafrica contro Israele davanti alla Corte internazionale di Giustizia possa in qualche modo costituire un precedente significativo nell’applicazione della Convenzione e quindi nella prevenzione di futuri genocidi?
«Il caso del Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia è in corso. Hanno emesso provvedimenti provvisori, stanno ancora portando avanti il caso. Preferirei non rispondere».
Quali aree del mondo sono oggi più a rischio?
«Sollevo costantemente la questione del Sudan e sono molto preoccupata dall’assenza di reazioni. Mi preoccupano anche gli omicidi nella Repubblica Democratica del Congo: è fondamentale che il mondo si mobiliti per affrontare la questione dei gruppi armati. Poi c’è il popolo rohingya in Myanmar: sono stati resi apolidi dal loro stesso Paese e sono stati oggetto di enormi quantità di discorsi d’odio, li descrivono come pulci da eliminare. Infine, mi occupo spesso degli indigeni, soprattutto dell’Amazzonia, che sono particolarmente colpiti dalle compagnie minerarie che distruggono il loro habitat. Notate che non sto menzionando né l’Ucraina né Gaza, che sono sempre sui giornali. Cerco, per quanto possibile, di far emergere quelle situazioni alle quali le persone non prestano attenzione».
I media hanno un ruolo così concreto nella prevenzione dei genocidi? La loro attenzione ai conflitti può cambiarne l’esito?
«Sì. Quanto più c’è mancanza di attenzione nei confronti dei perpetratori, tanto più cresce la loro impunità. Torno sul Sudan: recentemente in Ciad ho visitato dei campi profughi di persone allontanate dal Darfur. Ci sono le vecchie case dei che è stato espulso 20 anni fa e i campi profughi dei nuovi arrivati. Perché c’è gente che riesce sempre a farla franca? Credo che sia veramente fondamentale prestare attenzione alle voci delle vittime e dei sopravvissuti».
In che modo si coinvolgono le comunità per costruire la pace?
«I genocidi accadono all’interno delle comunità ed è quindi assolutamente importante che le persone che le compongono siano dotate delle competenze per riconoscerli, evitando così di trovarsi nella situazione in cui qualcuno debba venire da fuori per dire loro: “Questo è ciò che ti sta accadendo e questo è ciò che dovresti fare”. Devono capire che in questo momento è nelle loro facoltà ragionare sui problemi più grandi del mondo. Spesso mi trovo a dire alla gente: “Perché prolungate le guerre e poi cercate un accordo di pace? Non possiamo sederci al tavolo delle trattative prima?”».
Ha fatto visita al Giardino dei Giusti di Milano. Quali sono state le sue impressioni muovendosi tra gli alberi e i cippi?
«Sono molto commossa. Al Giardino sembra di sentire la presenza dei Giusti. In questo luogo si manifesta quel coraggio che incarna lo spirito delle persone che cambiano il mondo, che non si conformano, che fanno le cose pur sapendo che gli altri non sono d’accordo. E che quindi fanno la cosa giusta. Sono felice che qualcuno stia pensando di diffondere questa idea in altri continenti. Credo che le storie dei Giusti debbano essere trasformate in fiabe in più lingue, in brevi video per Whatsapp».
Whatsapp è parte di Meta, uno dei grandi gruppi tecnologici che lei ha coinvolto in un tavolo di lavoro per la prevenzione del discorso d’odio online.
«Si tratta di una conversazione potente ma riservata, basata sulla fiducia. Abbiamo parlato loro di come questo tipo di business possa distruggere il mondo. Di come, ad esempio, basti un tweet per distruggere il lavoro di un anno contro il negazionismo dell’Olocausto. È un dialogo molto proficuo. Ad esempio, viene da questo scambio il metodo presentato da Mark Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti per fornire notizie sulla Shoah agli utenti che cercano informazioni di stampo negazionista. E la prossima volta che incontrerò i responsabili delle società di tecnologia e le piattaforme di gaming le incoraggerò a visitare un Giardino dei Giusti. Abbiamo bisogno di diffondere queste pratiche. Potremmo rimanere sorpresi da quanti realizzerebbero un Giardino dei Giusti ma non sanno come fare».
Oggi chi sono i Giusti?
«Sono quelle persone che prendono la decisione di non seguire la massa e di restare fedeli a ciò in cui credono, anche in presenza di un grande pericolo per se stessi. Lo scorso 9 dicembre, anniversario della nascita della Convenzione sul genocidio, abbiamo nominato molte persone come Campioni della prevenzione. Ad esempio ci sono Miguela e Tito Vilhava, una anziana coppia, centenaria, che ho incontrato in Brasile. Ancora oggi combattono per i diritti delle popolazioni indigene».
Quando e perché ha deciso di dedicare la sua vita alla difesa dei diritti umani?
«Ci sono stati vari fattori. Sono stata influenzata da mio nonno, che ha combattuto in entrambe le guerre mondiali. Da bambina ricevetti in regalo dei fumetti di seconda mano che presentavano piloti di aerei da guerra come degli eroi. Mio nonno mi disse che apparentemente la guerra poteva sembrare una cosa avventurosa, ma non era mai buona. Poi c’è stata la scuola, dove le maestre ci facevano scrivere lettere a Mandela e agli altri prigionieri politici in Sudafrica. Mi sono appassionata definitivamente alla costruzione della pace tanti anni dopo, quando lavoravo per la Commissione per i diritti umani in Kenya. A quel tempo avevamo una costituzione che non conteneva nulla sui diritti umani. Quindi ho deciso di spiegare alle persone che le violazioni dei diritti umani sono le cause profonde dei conflitti. E che se elimini le violazioni dei diritti umani, allora sarai in grado di risolvere i conflitti».
Come si può mediare nei conflitti armati?
«Identificandosi con le persone. Una volta in Nigeria ho parlato con un gruppo di donne vittime di stupro. Mi hanno detto di essere state violentate sia dagli aggressori che dai soccorritori. Una delle donne mi ha raccontato dei suoi sforzi per amare il bambino frutto dello stupro. Lo faceva tenendolo in braccio. Mi sono detta: devo continuare a tornare qui per questa donna. E l’ho fatto per sette anni consecutivi. Così, ad esempio, ora, mi dico di dover tornare al Giardino dei Giusti e portare questa idea fuori, ovunque mi è possibile. Per me funziona in questo modo».