La metodica del terrore, a Savona, dopo la Liberazione, fu talmente diffusa e generalizzata, che non si può far a meno di considerare che quella stagione, durata fino al 1947, rappresentò non soltanto la prova generale della tanto attesa rivoluzione comunista, ma anche la feroce anticipazione della stagione del terrorismo che avrebbe insanguinato l’Italia negli anni Settanta. Quanto accadde nella provincia ligure è di una gravità eccezionale e non è mai stato interamente raccontato. Una strage continua, che massacrò i vinti, i fascisti, colpendo tuttavia anche esponenti della classe agiata, quegli odiati borghesi che rappresentavano l’ostacolo principale all’instaurazione della dittatura del proletariato. Dalla pratica dell’omicidio di massa, si passò a un certo punto all’azione contro bersagli individuali. Sono i cosiddetti delitti della 'pistola silenziosa', dal nome della 7,65, di fabbricazione inglese, usata dagli assassini, coperti dal Partito comunista, per ammazzare ex fascisti. Questi delitti, iniziati nel dicembre 1945, con l’uccisione di un ex milite della Brigata Nera, Giuseppe Wingler, si conclusero solo la vigilia di Ferragosto del ’47, quando vittima di 'pistola silenziosa' fu un’ex ausiliaria repubblichina di 23 anni, Rosa Amodio. Sentendosi vindici delle violenze fasciste, i sicari rossi agirono un po’ come accadde con la Volante Rossa a Milano. Solo che quando, la sera del 16 novembre 1946, nel mirino dei killer finì il commissario della locale Questura, Amilcare Salemi, che indagava su quegli omicidi, le istituzioni democratiche si accorsero finalmente che si era alzato troppo il tiro e che bisognava fermare quella spirale di violenza che non risparmiava neppure i servitori dello Stato. Anche il Pci, finalmente, si mosse: come ha scritto un giornalista del quotidiano La Stampa , Massimo Numa, autore del libro-inchiesta La stagione del sangue (1992), la direzione del partito inviò da Roma degli ispettori, nel tentativo estremo di «tenere sotto controllo le 'schegge impazzite'» e porre un freno alla lunga serie «di delitti che sconcertava e intimoriva l’opinione pubblica». Ma si era oramai nel 1948. I fatti di sangue accaduti nel dopoguerra colpiscono per le modalità agghiaccianti con cui furono commessi. È il caso della strage della famiglia Biamonti, agiati borghesi del quartiere savonese di Legino, originari di Cogoleto, un centro del Ponente genovese. Tutti sterminati: il capofamiglia, il capitano della Croce Rossa Domingo Biamonti, iscritto al Partito fascista repubblicano, la moglie, contessa Angiola Naselli Feo, la loro figlia, Angela Maria, e persino la domestica, Maria Maddalena Nervo. La loro eliminazione fu legata a motivi di risentimento personale, che si possono riassumere con il termine 'odio di classe'. Tutto ebbe origine con la sistemazione, in due locali di villa Biamonti, della vedova di un partigiano, Andreina Ghione, che aveva avuto la casa disastrata dai bombardamenti. Dopo il 25 aprile ’45, la donna, spalleggiata dal partigiano Luigi Rossi 'Toni', pretese di 'allargarsi' occupando anche alcuni locali del piano nobile della villa. Domingo Biamonti andò a protestare in Prefettura per quello che riteneva fosse un sopruso. Era il 14 maggio ’45. La sera stessa, un gruppo di partigiani, guidato dal Rossi, bussò alla porta di casa Biamonti e prelevò i tre componenti del nucleo famigliare, più la cameriera. La contessa, prima di lasciare il suo domicilio, prese con sé una borsa contenente molti gioielli e denaro: borsa che gli fu subito sottratta dal partigiano Mario Bergamasco. I Biamonti furono dapprima rinchiusi nel campo di prigionia di Legino, poi in quello di Segno. La notte tra il 18 e il 19 maggio, furono portati al cimitero di Zinola e fucilati. I corpi vennero subito sepolti in una fossa del camposanto. Il fossore del cimitero, obbligato a intervenire per l’inumazione clandestina, obiettò che sarebbe stato meglio usare delle casse di legno. Gli fu risposto, in dialetto ligure: «Macché bare, così: come i cani». La villa di Legino venne depredata di tutto, dall’argenteria alla biancheria: mobili e indumenti furono trovati nelle case del Rossi e della Ghione. Al processo per questo odioso delitto, Luigi Rossi fu condannato, nei primi due gradi di giudizio, a 27 anni di carcere, mentre il Bergamasco, assolto in primo grado, fu condannato alla stessa pena del Rossi in appello. Per depistare le indagini, gli esecutori del delitto avevano piantato sulla fossa dei Biamonti una finta lapide sulla quale era scritto il nome di una persona inesistente: 'Toso Luigi di anni 84'. L’ex fossore del cimitero di Zinola, Bruno Bruzzone, nel 1949 riesumò i Biamonti. Raccontò che i corpi erano uniti tra loro. Ricorse a un’espressione cruda: «Hanno bollito insieme». C aso simile a quello dei Biamonti, fu l’eccidio della famiglia Turchi, in località cascina Berta, nella frazione Ciatti, sulle colline di Savona. Il capofamiglia, Flaminio Turchi, operaio, allevava un gregge e con la moglie, Caterina Carlevari, coltivava come affittuario un vasto appezzamento di terra. La coppia aveva tre figlie: Giuseppina, Pierina e Maria, tutte tra i 20 e i 25 anni. Due di loro frequentavano circoli fascisti e, nelle giornate dell’insurrezione, per rappresaglia, furono rapate. Il padre si recò a protestare alla sede del Cln. Per tutta risposta, la notte del 13 maggio, i cinque furono abbattuti a raffiche di mitra. Alcuni operai che lavoravano alla stazione delle Funivie situata poco sotto la cascina dei Turchi, udirono le sventagliate, poi colpi isolati, infine lamenti come di un cane in agonia. Alle prime luci dell’alba, gli operai si inerpicarono lungo il sentiero che giunge alla cascina Berta dove trovarono quattro corpi privi di vita: nell’aia giaceva esanime anche il cane. Mancava all’appello la figlia minore, Maria. Mentre ancora speravano si fosse salvata, la trovarono poco distante: la ragazza, gravemente ferita, era riuscita a trascinarsi fino alla strada sottostante, ma era morta dissanguata. Non meno raccapricciante il barbaro assassinio, avvenuto il 28 aprile ’45, di una ragazza di neppure quattordici anni, Giuseppina Ghersi, colpevole soltanto di aver aderito al Gruppo femminile fascista di Savona, e di aver inviato a Mussolini un tema apologetico. Rinchiusa nel campo di prigionia di Legino, la giovane fu dapprima violentata, e quindi massacrata a calci; infine, mentre era agonizzante a terra, venne 'finita' con un colpo di pistola alla nuca da un partigiano di Bergeggi. Il suo corpo straziato, il primo di una fila di sette cadaveri, nelle ore seguenti fu esposto all’esterno del cimitero di Zinola: il capo rasato era stato coperto di vernice antiruggine rossa. L a lunga scia di sangue continuò a macchiare Savona ancora per molto. Non solo i fascisti, o loro simpatizzanti, finirono vittime della violenza politica dei 'vincitori'. La sera del 10 novembre ’45, il dottor Francesco Negro, 49 anni, ufficiale sanitario del Comune di Savona, stava recandosi in bicicletta a trovare alcuni amici. Il medico, antifascista e socialista, avendo compilato gli atti dei morti ammazzati nelle vie della città, o al cimitero di Zinola, aveva più volte denunciato pubblicamente quei misfatti: «Neppure i fascisti si comportavano così!». Verso le 20,30, Negro fu fermato da due individui armati e con il viso coperto di fuliggine, che il medico poté comunque riconoscere. I due personaggi lo invitarono a scendere nel greto del fiume Letimbro, «per discutere ». Negro si rifiutò e tentò di darsi alla fuga, ma fu raggiunto alle spalle e all’addome da due colpi di pistola. L’uomo, mentre gli aggressori si dileguavano, riuscì a trascinarsi per qualche metro chiedendo aiuto. Ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale San Paolo di Savona, morì l’indomani mattina. Prima di spirare, riferì ai familiari i nomi dei suoi assassini. I parenti, tuttavia, per paura, non hanno mai osato chiedere giustizia. Così un altro dei molti delitti è rimasto impunito.