Agorà

SHOAH. Lia Levi, «I testimoni per troppo tempo inascoltati»

Alessandro Zaccuri lunedì 21 gennaio 2013
A guerra finita, quando le capita di tornare in chiesa, Dora si stupisce di come il rito le risulti subito familiare, simile a «un cane fedele che ti raggiunge di corsa non appena ti vede». Dora non è cristiana, ma ebrea. Nel momento più buio della persecuzione nazista, la sua famiglia è stata ospitata e protetta da don Gioacchino, saggio prete di campagna che per mettere in salvo gli amici si è inventato la storia dei parenti sfollati. Un po’ di dottrina l’hanno imparata per forza, per non dare nell’occhio. Nessuno, però, ha mai preteso la loro conversione. È questa la scena su cui si apre La notte dell’oblio (e/o, pagine 192, euro 18), il nuovo romanzo di Lia Levi. Dal 1994, anno in cui pubblicò il best seller Una bambina e basta, la scrittrice è tornata a più riprese su questa che, per lei, è stata un’esperienza decisiva: «Insieme con mia madre e le mie sorelle – spiega – anche noi fummo nascoste dalle suore di San Giuseppe, al Casaletto. Ma a Roma ci sono stati tanti episodi del genere. Basti pensare alla figura di don Pappagallo, il sacerdote che ispirò il personaggio di don Pietro in Roma, città aperta».Dalla Notte dell’oblio emerge però anche un altro tema: la vergogna dei sopravvissuti al ritorno dal lager. «Questione molto complessa – ammette Lia Levi –. La società italiana nel suo insieme era restia alla memoria e, quando se ne presentò l’occasione, preferì assolversi, trasformando in lavacro collettivo un provvedimento politico come la cosiddetta “amnistia di Togliatti”. Non ci fu riforma della pubblica amministrazione, per esempio: chi era poliziotto durante il fascismo rimase al suo posto, e così i giudici, i funzionari. Da una parte c’era il desiderio, legittimo, di ricominciare, lasciandosi alle spalle il passato. A prevalere fu però la rimozione. Gli stessi ebrei non si opposero a questa tendenza perché, per primi, erano sostenuti dalla volontà di dare vita a un mondo nuovo, che proprio in quegli anni prendeva forma nello Stato di Israele. Ma c’era anche il timore di non essere ascoltati. Come ha scritto benissimo Elsan Morante nella Storia, nel dopoguerra il ritorno dei reduci non aveva nulla di eroico. Loro, a differenza di Ulisse, rievocavano un dolore al quale nessuno più voleva dare ascolto».La vera consapevolezza è arrivata solo col tempo, dunuqe. «Ed è dovuto passarne molto – ribadisce la scrittrice – prima che si iniziasse a prendere in considerazione la voce dei testimoni. Pensi alla vicenda di Se questo è un uomo, uscito per la prima volta in sordina nel 1947 e pubblicato da Einaudi solo nel 1958. Il vero punto di svolta, in ogni caso, si ebbe nel 1961, con il processo Eichmann a Gerusalemme: era il segno che anche Israele aveva deciso di fare i conti con la Shoah, mediante un’iniziativa che scompaginava la logica dei blocchi contrapposti. Fino ad allora, infatti, pur di non mettere a repentaglio il fronte antisovietico, si era accettato di sorvolare sulle responsabilità della Germania. Ma anche in seguito il cammino è stato lungo. Soltanto a partire dagli anni Novanta si può parlare di una sensibilità diffusa e di una memoria finalmente condivisa».Oggi molti temono che, con la scomparsa dei testimoni, il ricordo possa di nuovo affievolirsi. Ma su questo Lia Levi è ottimista: «Credo che l’arte in generale, e letteratura e cinema in particolare, abbiano svolto un ruolo determinante, destinato a non venir meno con il tempo. Lo stesso Primo Levi è più conosciuto e ascoltato oggi di quanto lo fosse in vita. Sarà la rielaborazione creativa a tenere vivo il passato».