«La matematica è l’arte di immaginare e di dimostrare, cogliendo le invarianti più astratte della realtà. Procedendo solo con un pensiero astratto e con le sue conseguenze logiche, ci si allontana infinitamente dalla realtà ma per trovarsi, alla fine, nel cuore stesso della realtà. Ecco il prodigio della matematica, arte di trasformare, in maniera analitica, l’impossibile nel possibile». Questa è oggi la scienza di Euclide e Leibniz, secondo il professor Massimo Buscema, computer scientist di grande successo, che ha conseguito fama internazionale con nuovi modelli e algoritmi di intelligenza artificiale, alcuni dei quali confluiti in 14 brevetti internazionali. È fondatore e direttore del centro di ricerche «Semeion» ed è il secondo tra gli autori più prolifici, a livello mondiale, nel campo delle reti neurali artificiali (fonte: GoPubMed 2008). Consulente di New Scotland Yard, con il Progetto Central Drug Trafficking Database ha fornito alla più famosa polizia del mondo il know how per scoprire le rotte del traffico internazionale di droga dal momento dell’entrata e della capillare distribuzione sul territorio britannico.
Che cosa serve per fare un’eccellente matematica? «Immaginazione e rigore analitico. L’immaginazione è la componente creativa della matematica. È un portento del cervello, che non conosciamo. È l’attività tramite la quale si avanzano ipotesi insolite sulla struttura invisibile del mondo, che genera quella visibile. La capacità analitica consiste nel dimostrare logicamente e sperimentalmente tali ipotesi. Il rigore analitico permette di raggiungere la verità ma anche di ottenere una 'democrazia della scienza', per cui ogni altro ricercatore può ripercorrere i tuoi passi e andare oltre. Il matematico è come uno che salta su una stella sconosciuta e poi deve verificare se è in grado di costruire – da quella stella, fino al punto della Terra da cui è saltato – una scala che qualunque essere umano (anche non particolarmente dotato) possa percorrere».
La matematica applicata può commettere errori? «Quella che facciamo al 'Semeion', nel campo dell’imaging medico, si è dimostrata capace di trasformare nell’informazione-chiave ciò che da altri ricercatori era stato scartato come 'rumore' o inutile disturbo. Ma la scienza non esiste se non fa errori. Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori. Oggi purtroppo alcuni scienziati hanno invece pensieri categorici (e comportamenti ambigui)».
Esistono anche limiti oggettivi. «La matematica sa individuarli. Prima di tutto: limiti di computabilità. Siamo in grado di calcolare l’angolo con cui rimbalza la palla sul bordo rettilineo di un biliardo. Ma, se il biliardo ha il bordo a cresta di montagna, cioè irregolare, la traiettoria della palla è diversa. Dopo 'n' rimbalzi, la differenza diventa esponenziale e la posizione della palla è sempre più imprevedibile. Il secondo limite è l’incertezza della misurazione: quando misuro entità molto piccole, interferisco con l’entità stessa. Un elettrone, prima che io ne verifichi la posizione, è rappresentato come una nube di probabilità, cioè potrebbe essere dovunque in un certo 'intorno'. Ma quando lo misuro, lo trovo in un punto specifico. Qui nasce l’arcano: è come se chi osserva determinasse la posizione dell’elettrone. È il sistema osservatore-osservato che fa passare un oggetto da pura informazione a materia. Alcuni teorici hanno immaginato che lo stesso Big Bang sia un collasso della pura informazione in massa-energia. Allora si può porre la domanda: in quella circostanza chi era l’osservatore? A livello di congettura non dimostrabile, questa domanda è ragionevole».
Che rapporto c’è tra matematica e fede? «È come se mi chiedesse: 'In casa preferisce una finestra o un televisore?' La finestra è essenziale per vedere ciò che succede fuori casa. Il televisore mi serve per sapere che cosa succede nel mondo che non posso vedere dalla finestra. Nessun architetto obbligherebbe un futuro padrone di casa a scegliere tra finestra e televisore. Perciò non ha senso sostenere che, se sei credente, non puoi essere un bravo scienziato. È come dire: 'poiché hai una casa con finestre, non puoi comprare anche il televisore'. Per quanto mi riguarda, penso che credere in un Dio-persona, come quello cristiano, mi dia il coraggio di guardare da ogni finestra e di accendere ogni televisore».
Ma allora com’è nata la contrapposizione tra scienza e fede? «La risposta è: a chi giova questa contrapposizione? Non agli scienziati, semmai a quelli che tramite la scienza acquisiscono soldi, fama e potere. Da una ricerca risulta che credono in un Dio trascendente il 4% dei biologi, il 7% dei fisici e il 14% dei matematici. Queste percentuali corrispondono, grosso modo, ai rispettivi flussi di finanziamento industriale che arrivano ai vari rami della ricerca. Le multinazionali che producono tecnologia possono influenzare in maniera crescente il campo biologico e un po’ anche la fisica. Ma molto meno i matematici. Chi sforna prodotti ci vuole consumatori, ha interesse a far credere a ogni persona sul globo che l’imperativo è il consumo perché 'tutto è qui, adesso', e 'del doman non v’è certezza'».
È nelle informazioni-chiave dell’universo e del mondo che va cercata la risposta agli interrogativi fondamentali? «Sì, e anche nelle informazioni che riguardano la singola persona. Dobbiamo pensare all’identità di ognuno come a un’incredibile quantità organizzata di atomi. Ma durante la sua vita, ogni individuo non fa che cedere vecchi atomi e prenderne nuovi. È credibile che all’età di 50 anni, io non abbia più neanche un atomo di quelli che avevo a cinque anni. Ma allora perché mi sento la stessa identità e mi ricordo anche di quando avevo cinque anni, se tutta la materia di cui ero fatto è cambiata? Dove sono stato registrato? Dov’è il disco rigido su cui è stato fatto il backup di me stesso? Non c’è. E allora perché ho memoria? E’ più probabile che la mia identità non sia fornita dalla mia struttura bio-materiale (che cambia continuamente) ma dalla funzione matematica che connette tutte le traiettorie di qualsiasi mio atomo. In altri termini: la mia identità è solo un’organizzazione di informazioni, un pensiero. Ora, se tutta la complessità che esploriamo nasconde un pensiero, e se è così ben congegnato da permetterci di esistere e di formulare una domanda sensata sull’origine del cosmo, è più che ragionevole credere che l’informazione iniziale non sia stata buttata lì a casaccio. 'Penso quindi esisto' oppure 'Esisto perché sono pensato'?