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Parigi 2024. Le Olimpiadi delle donne: quella metà che è una meta

Alberto Caprotti sabato 20 luglio 2024

Giorgia Bordignon, medaglia d'argento nel sollevamento pesi a Tokyo 2020

Il numero fondamentale di queste Olimpiadi è uno solo: 50. La percentuale che spacca, che è un inizio e al tempo stesso una fine. Cinquanta per cento, la quota rosa faticosamente raggiunta. Per la prima volta nella storia dei Giochi. E partendo da zero, nelle cifre e nella mentalità. Le donne come gli uomini, almeno nei numeri: a Parigi 2024 saranno in tutto 5.250 le atlete in gara, su 10.500 partecipanti. Se lo è auto-imposto il Comitato Olimpico Internazionale. Per rimediare, per correggere una tradizione diversa. Sulla carta, almeno. Perché l’eguaglianza numerica non rappresenta la parità sociale nemmeno nello sport, ma è un dato che merita di essere sottolineato.

“Impraticabile, antiestetica, non interessante”: queste furono, nel 1896, le parole con cui venne bocciata l’idea di aprire le Olimpiadi alla partecipazione femminile. A pronunciarle non fu un misogino impenitente, ma lo stesso Pierre De Coubertin, il barone, uomo di fine Ottocento, non proprio illuminato, il fondatore dei Giochi moderni. Moderni mica tanto, se le donne hanno dovuto aspettare il 1900 per essere presenti - ma solo fuori competizione in alcuni sport considerati “femminili”, come tennis, golf, equitazione, vela e croquet, quello di “Alice nel Paese delle meraviglie”. La loro presenza era sconsigliata. Anche perché correre, ammoniva la scienza dell’epoca, metteva a rischio l’apparto riproduttivo. Sembra folle preistoria, è solo storia.

Ma le donne premevano. Crescevano. E servivano. Per aumentare l’audience, per non perdere una fetta di pubblico e interesse. Così a Parigi 1924, cento anni fa, furono inserite nel programma vero: erano 22 in tutto, il 4,4% del totale dei partecipanti. A Helsinki 1952 salirono al 10%, ma quarant’anni dopo a Barcellona ‘92 erano ancora solo il 30%. Ora i Giochi svoltano: la metà esatta di presenza femminile non è un traguardo, ma un livello da proteggere. Non risolve differenze secolari ma è un passaggio di non ritorno, un distacco da un passato complicato.

Professioniste dell'impegno e della fatica. Brave e cattive. Sciolte, sicure, un po’ narcise. Queste sono oggi le atlete olimpiche. Corrono, saltano, nuotano, sparano, sollevano pesi come e più degli uomini. Ma per grazia ricevuta. Il Cio ha dovuto fare molte modifiche al programma per centrare l’obiettivo della parità di genere. Ha imposto a ciclismo, boxe e atletica per la prima volta lo stesso numero di eventi per uomini e donne. Per ridurre il divario è stato necessario escludere gare, portare a 20 le discipline miste, o calibrarne altre a seconda della rappresentanza, creandone alcune, come 4x100 mista del nuoto. Restano sbilanciate invece la lotta (192 uomini e 96 donne in gara) e il calcio (288 e 216), mentre la presenza femminile sarà predominante nella ginnastica (206 contro 111 maschi), e nelle discipline acquatiche (722 donne e 648 uomini).

L’Italia è ancora leggermente sotto il traguardo della metà esatta. Ma a Parigi il Coni porterà il contingente femminile più numeroso di sempre: 194 donne e 209 uomini, il 48,14% dei suoi 403 atleti. Ci sono ancora alle Olimpiadi sport di cui esiste solo la versione maschile, come la lotta greco-romana. E resta enorme il divario a livello di posizioni dirigenziali. Nel Cio, negli anni 80, le donne erano quasi assenti. Oggi l’eguaglianza è quasi raggiunta, nei numeri ma non nei ruoli, con le posizioni di vertice ancora saldamente in mano ai maschi. Anche le allenatrici degli atleti sono in minoranza: a Tokyo 2020 erano a livello globale solo il 13%. L’Italia ne ha alcune nel nuoto e nell’atletica ma ci sono molte nazioni dove i tecnici sono solo uomini.

Imbarazzi, situazioni da correggere, realtà anche estetiche da affrontare. Il regolamento brodcast Cio per le Tv impone addirittura espressamente a cameraman e registi di “non indugiare su particolari parti anatomiche del corpo femminile”. Altra questione calda, quella della feminilità delle atlete, che ossessiona da tempo lo sport. Il problema esplose con la sudafricana Caster Semenya, due ori olimpici nei 800 metri nel 2012 e nel 2016, che per il suo iper androgenismo – ovvero una produzione di ormoni maschili più alta del normale – fu costretta a sottoporsi a trattamenti medici per ridurre il livello di testosterone e a combattere contro sospetti e ostracismi. Fino a novembre 2021, per poter gareggiare nelle categorie femminili ai Giochi, le atlete dovevano dimostrare di aver avuto per i precedenti 12 mesi almeno livelli di testosterone nel sangue inferiori a 10 nanomoli per litro. E ogni federazione poteva decidere di rimodulare questo limite per renderlo più adatto ad ogni disciplina. Seguendo questo criterio, a Tokyo 2020 furono escluse le velociste namibiane cisgender Christine Mboma e Beatrice Masilingi, e la velocista transgender statunitense Cece Telfer. La pesista neozelandese Laurel Hubbard riuscì invece ad essere ammessa, diventando la prima atleta dichiaratamente trans a competere alle Olimpiadi in una disciplina individuale. A settembre 2022 sulla rivista americana Atlantic, un articolo titolato “Separare lo sport in base al sesso non ha senso”, fu molto criticato e dibattuto. Tra le tesi sostenute, c’era il fatto che la divisione per generi potrebbe essere sostituita da una divisione per fasce di peso, così come avviene già ad esempio per atleti dello stesso genere nel pugilato. Da due anni le nuove linee guida del Cio sono cambiate e i livelli di testosterone vengono presi in considerazione insieme ad altri parametri e valutazioni.

Perché nello sport la parità non è ancora un processo naturale. Si impone, quasi fosse una necessità. Per evitare critiche, per cavalcare l’onda. O per cancellare un passato sbagliato. Come se per farlo bastasse far sfilare insieme un portabandiera maschio e una femmina durante la cerimonia inaugurale, e non invece i due che meritano di più, o che siano più rappresentativi, a prescindere dal sesso e da qualunque altra considerazione. Questa sarebbe la vera svolta epocale. Ma non si può avere tutto. Non adesso. Non ancora, almeno.