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Letteratura. I cento anni di Paolo Volponi, maestro del cortocircuito tra suono e senso

Alberto Fraccacreta martedì 6 febbraio 2024

Paolo Volponi

Se passate in via Piave (già via Ca’ Fante) a Urbino, potete vedere con gli occhi della mente il professor Gaspare Subissoni che arranca ancora nella neve «brontolando per lo stradino troppo stretto» e «per il timore» di un «refolo incombente». La prima pagina del Sipario ducale – da poco ristampato per Einaudi con la prefazione di Paolo Di Stefano (pagine XVIII-326, euro 21,00) – è un piccolo prontuario della scrittura di Paolo Volponi: lirismo visionario, linguaggio aspro ed elaborato, impegno socio-economico-politico, sguardo disteso in avanti. La riedizione del Sipario non è l’unica iniziativa Einaudi per festeggiare il centenario dell’autore urbinate: tornano anche i tre folti tomi della “Nuova Universale” con la curatela meticolosa di Emanuele Zinato (Romanzi e prose,I-II-III) e il reprint singolo della Macchina mondiale (pagine 224, euro 12,50) che vinse il Premio Strega nel 1965. Last but not least, il volume delle Poesie (sempre a cura di Zinato, con postfazione di Giovanni Raboni, pagine XLII-486, euro 16,00) che raccoglie invece Il ramarro, Poesie e poemetti 1946-66, Con testo a fronte e Nel silenzio campale assieme ad alcune liriche estravaganti e a nove inediti. Osserva Zinato nell’introduzione al florilegio: «Ripercorrendo a ritroso l’intero corpus poetico di Paolo Volponi, dai poemetti di Con testo a fronte (1986) e Nel silenzio campale (1990) con la loro “ossessione acustica”ai brevi frammenti del Ramarro (1948) percorsi da un “filo rosso di eros e repulsione”, il lettore è colto da una vertigine. Si tratta infatti di testi diversissimi tra loro che, da una raccolta all’altra, procedono per scarti e revulsioni. Del resto, in tutta l’opera di Volponi domina il cortocircuito tra suono e senso, tra uno stato psichico e la dimensione sociale in esso riflessa: per questo la poesia è la sua radice più intima e profonda».

Se nei pietrosi esordi Salvatore Ritrovato aveva intravisto il «laboratorio linguistico e sentimentale»di un giovane poeta che si misurava causticamente – nel tentativo di uscire dalla couche ermetica – con Paul Éluard, García Lorca, Rafael Alberti e Ramón Jiménez, dagli ultimi sfolgorii Volponi sembra fondere sperimentalismo e memoria, come accade mirabilmente in Ettore (Con testo a fronte): «Muoiono e non da ora quegli amici / con i quali conducevo la vita / ormai in silenzio e da lontano / come la riga mattutina ordita / nel cielo che pareggia il giorno, / sempre sorprendente e nuova invano, / come perenne scorrere insieme e vano / riemergere nel sereno sia nel maltempo / prossimo e lontano dentro e ovunque intorno...». Tra gli interessanti inediti, generosamente donati da Caterina Volponi, spicca il racconto in versi Arturo, composto nel 1966 e dedicato al padre dello scrittore. «Se gli ritornò quel pensiero dopo quell’attimo, / e sempre lo scansò, fu per non godere più di quella punizione. / Ma adesso è inevitabile, largo / lago scuro in cui ogni punizione / si tempra contro di me. / Adesso capisco». Davvero la misura del dettato volponiano è tutta conchiusa in un originale refluire di oggetti-feticci del capitale (i simulacri baudrillardiani), psicologismi, tonalità classico-elegiache, occhiate a radar dal paesaggio. Come ricorda Raboni nell’articolo che fungeva da prefazione all’edizione 2001 delle Poesie, «Volponi ha espresso con travolgente naturalezza, con prodigiosa plasticità d’immagini, con struggente semplicità di cadenze il dramma antropologico del nostro tempo: lo scontro mortale fra il mondo della natura, e della laboriosità umana e il mondo del capitale e del lavoro alienato, la perdita orribilmente insanabile del sentimento della totalità, le ferite inferte al paesaggio geografico e morale del nostro paese dalla decomposizione d’una modernità mai veramente nata». Di qui l’assoluta attualità del messaggio di Volponi, peraltro ravvisabile nei lucidissimi discorsi parlamentari tenuti tra l’84 e il ’92.

Nel sottofondo della coscienza o all’ambrato sole delle «argille», appare costantemente Urbino, un «aguzzo diamante» che «non ha ferite» e «sta allentando la sua armatura». Urbino amatissima, incastonata in linee antinomiche: «La nemica figura che mi resta / l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, / quieta tra le mie ire. // Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire / di lasciare le mie care / piaghe guarire» (Le mura di Urbino, in Poesie e poemetti 1946-1966). L’Università degli Studi di Urbino, con il Comune, la Fondazione Carlo e Marise Bo (custode dell’Archivio Urbinate) e la Galleria nazionale delle Marche, ha promosso presso il ministero della Cultura un comitato celebrativo in occasione del centenario volponiano. Oggi a Palazzo Passionei Paciotti viene inaugurata la ricchissima mostra Paolo Volponi: un itinerario nella vita e nell’opera (visitabile fino al 13 dicembre). Il materiale documentario – manoscritti, dattiloscritti, libri, foto, video – è stato disposto in rigoroso ordine cronologico: ventotto teche, distribuite in nove ambienti, seguono gli slices of life dello scrittore spiegati in differenti città (Urbino, Roma, Ivrea, Milano). Contestualmente, dal pomeriggio di oggi fino a giovedì mattina, si terrà nella medesima sede il convegno internazionale Paolo Volponi. Le carte, l’opera, la polis con ventidue relatori, provenienti da atenei italiani e stranieri, pronti a esplorare le traiettorie ermeneutiche della produzione volponiana in rapporto a temi cogenti come l’ecologia, la distopia, il postumano. Altre mostre sono previste, nel corso dell’anno, presso Palazzo Ducale e Palazzo Battiferri. La città pare così stringersi nello stesso, rammemorante cerchiodell’ultima poesia: «A questo tavolo si tennero in tanti / che ora non ci sono più, vecchi e giovani: / a questo tavolo di pietra bianca, fredda / mi tengo io non so se per raggiungere i mancanti / o se per restare di qua, anche se la mente / misera coperta / già ingiallisce i bordi e gli incontri».