«Fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani» si disse nel lontano 1861. E quella frase storica, in questo 2011 che celebra il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, la sentiremo ripetere molte volte. Ma con cosa si «possono fare gli italiani»?Il musicologo Paolo Prato una tesi ce l’ha: «Con la musica». E spiega perché Giuseppe Verdi e Laura Pausini, l’autore de La donna è mobile e la cantante de La solitudine, «hanno aiutato lombardi e siciliani a sentirsi un unico popolo attraverso una forma comune di espressione e comunicazione come la musica, capace di farsi arte e al tempo stesso strumento di riscatto sociale». Prato lo racconta nelle quasi cinquecento pagine di La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi, volume edito da Donzelli (euro 33). Parte dal Va’ pensiero e arriva sino a X Factor per dire che «prima ancora che nell’impresa di Garibaldi gli italiani hanno trovato un comune denominatore nella cantabilità della musica italiana, presente in Verdi ma anche nella canzone del Novecento. Una cantabilità che è diventata il nostro marchio di fabbrica. Che tutto il mondo ci riconosce ascoltando le melodie di Puccini o la voce di Andrea Bocelli». Il suo è un lungo viaggio «per rileggere in chiave sociale la storia d’Italia, dove la musica ha sempre interagito con l’economia e la politica».Prato, docente alla Pontificia università Gregoriana di Roma, già direttore di Radio InBlu e autore di programmi di Tv2000, è convinto che «gli italiani si sono sempre raccolti intorno a progetti con al centro la musica: nell’Ottocento era il melodramma oggi i talent show o eventi come il Festival di Sanremo che resta tra i primi cinque programmi televisivi più seguiti. E che quest’anno vedrà Al Bano cantare proprio il Va’ pensiero nella serata per i 150 anni dell’Unità d’Italia». E proprio il coro di Verdi e ’O sole mio sono stati preferiti alle più 'politiche' Bella ciao e Giovinezza. «Segno che ancora una volta la musica divide, rivelando chiaramente la natura profonda della musica, per nulla innocente».Oggi la tv, ieri la radio e il grammofono. Ai tempi di Garibaldi Nabucco, con il passare degli anni le Mille bolle blu di Mina e Il ragazzo della via Gluck di Celentano, le Emozioni di Lucio Battisti e il Viva l’Italia di De Gregori. Perché in 150 anni molte cose sono cambiate, anche nella musica. «Nel tempo – spiega Prato –, esaurita la fortunata stagione di Verdi e Puccini, si è creata una distanza tra la musica 'colta' e il pubblico, in particolare quando si è deciso di spingere sul pedale della sperimentazione. Uno scollamento che resiste e che viene colmato dalla canzone o solo da alcuni artisti particolari». Ma anche da forme d’arte come il canto sociale che «ha aiutato i vari movimenti contadini e operai a farsi forza, a trovare uno spirito unitario» racconta Prato che rintraccia anche negli inni liturgici un percorso di costruzione della nostra identità. «Penso alla musica di Lorenzo Perosi, ai canti del dopo Concilio scritti in italiano e alla cosiddetta Messa beat, che hanno raccolto quelle istanze di maggior comunicabilità della fede già presenti nel popolo».A 'fare gli italiani' dunque è stata la musica 'più della politica'. Possibile? «Sì, perché l’arte delle note aiuta a capire alcuni meccanismi della vita sociale, ad esempio le istanze degli ultimi, delle quali la politica sembra disinteressarsi». Un ruolo che non è esaurito, allora. «Oggi la musica è dappertutto. Diffusa dagli altoparlanti o confinata nell’iPod. Ma il rischio è che resti solo un passatempo, facendo da sottofondo alla vita senza aiutare l’uomo a riformulare le grandi domande sull’esistenza. Perché ciò avvenga serve, però, che la musica sia presa sul serio, non solo consumata, ma capita a fondo nei suoi meccanismi. E per fare questo occorre che non sia ai margini del nostro sistema formativo, come accade purtroppo oggi in Italia».