La tragedia. Hugo Millán: morire a 14 anni sognando la MotoGp
Hugo Millán
Quello di Hugo Millán è oggi un nome che si aggiunge all’elenco luttuoso dei ragazzi che hanno perso la vita in una corsa motociclistica agonistica. Uno dei più giovani, con i suoi appena 14 anni: spagnolo, gettato nella mischia da bambino già con le minimoto, Millán è morto domenica sul circuito dell'Aragona nel corso di una gara del Cev valida per l’European Talent Cup. Una caduta a centro pista all’uscita di una curva, il tentativo di rialzarsi, le moto degli avversari dal volto adolescente che lo sfiorano e una che, fatalmente e inevitabilmente, lo investe provocandone la morte. Non importa nemmeno chi, incolpevole e destinato a portare sulle spalle un peso. Millán come Jason Dupasquier, vittima a 16 anni lo scorso maggio nelle qualifiche della Moto3 al Mugello, come il 20enne Afridza Munandar deceduto nel novembre 2019 a Sepang nella Asian Talent Cup, come Andrea Antonelli che morì nel 2013 nel campionato Supersport a Mosca, come Marco Simoncelli, dieci anni fa, in quella drammatica domenica malese, come nel 2010 Shoya Tomizawa a Misano. A parte quello del Sic, peraltro, si tratta di nomi pressoché dimenticati, quasi un tributo da pagare senza ricordarne troppo le tragedie.
Non sono gli unici, ma le loro morti hanno in comune la dinamica, vale a dire l’investimento da parte delle moto guidate da altri piloti. Incidenti tutti diversi ma tutti uguali, perché se è vero che negli anni molto si è fatto per la sicurezza dei motociclisti - dall’allargamento delle vie di fuga ad un più attento disegno dei circuiti, sino ai miglioramenti tecnologici come l’airbag delle tute - è vero anche che l’eventualità di essere investiti dai colleghi nel corso di una gara (diverso il caso, nel 2016, della morte di Luis Salom nelle libere di Moto2 a Barcellona, quando venne investito dalla propria moto) rimane il grande buco nero di questo sport.
In occasione della morte di Dupasquier, Loris Capirossi, membro della direzione gara per conto della Dorna, aveva parlato di un tipo di incidente inevitabile, «che è sempre lo stesso da anni e al quale non sappiamo come porre rimedio», disse con una certa rassegnazione, aggiungendo poi l’intenzione di cercare comunque qualche rimedio da parte di chi il Motomondiale lo organizza. Di certo non avrebbe senso, né sarebbe ipotizzabile, mandare in pista i piloti uno alla volta relegando il tutto a una sfida sul giro più veloce, ma in certe categorie e in determinati campionati si potrebbe eventualmente ridurre il numero dei partecipanti, un palliativo che non mette a riparo da casi del genere, ma in linea teorica potrebbe renderli meno frequenti. Ha magari senso anche un ragionamento sulla visibilità in uscita da determinate curve, così come ogni miglioria nelle tute e dell’abbigliamento tecnico, ma rimangono punti deboli - il collo, ad esempio - la cui fragilità viene acuita dalla velocità di impatto. La dinamica dell’incidente di Millán, in questo senso, ha purtroppo mostrato plasticamente come in certi casi sia davvero difficile uscirne indenni.
Un tempo cadere, nel motociclismo, significava spesso morire e, sebbene ora non sia più così, resta una disciplina ad alto tasso di pericolosità, insita questa nella velocità e nelle caratteristiche di solidità delle moto che, lanciate, sono pesanti proiettili in traiettoria. Chi va in sella è consapevole del rischio - un rischio che non potrà mai essere annullato - e lo accetta narcotizzandolo, anestetizzandolo con il fatalismo di chi sa che dietro una curva può accadere qualsiasi cosa. Ma spera sempre di poterla evitare.