Agorà

Intervista. Higgins, il poeta presidente d'Irlanda

Riccardo Michelucci venerdì 17 ottobre 2014
L’unico rammarico di Michael D. Higgins, da quando è stato eletto nono presidente della Repubblica d’Irlanda, è quello di aver avuto poco tempo per dedicarsi alla poesia. Impegnato in politica da una vita e diventato la più alta carica istituzionale irlandese nel 2011, Higgins ha trovato nella scrittura poetica la sua stella polare, divenendo paradigma del rapporto simbiotico che cultura e politica hanno da sempre nel suo Paese: letteratura e diritti civili, poesia e impegno pacifista dialogano e si compenetrano. La sua opera segue la tradizione degli antichi cantori irlandesi ed esprime una riflessione sul mondo mai priva di un richiamo all’impegno in prima persona. «Le parole hanno caratterizzato tutta la mia vita. Nei discorsi pubblici sono per me uno sfogo, con cui esprimo dolore, angoscia e rabbia», dice accogliendoci nella residenza presidenziale immersa nel Phoenix Park, a Dublino.  Inevitabile paragonarlo a un altro intellettuale che abitò in queste stanze, Douglas Hyde, che negli anni ’30 divenne il primo presidente dell’Irlanda indipendente. Hyde traduceva testi popolari in lingua gaelica e fu l’emblema del nazionalismo culturale che lottava per preservare le antiche tradizioni del passato; Higgins è invece impegnato a trasporre sotto forma letteraria le grida dei poveri, degli ultimi che non hanno voce, con una visione assai più globale rispetto al suo predecessore: «Il tema per me più importante è il terribile danno che è stato fatto alle persone spegnendo la loro naturale capacità di amarsi reciprocamente. Ed è ciò che mi rende da sempre così critico nei confronti dell’autoritarismo, di qualunque genere esso sia, compreso il tremendo autoritarismo della burocrazia di cui per primo parlò Max Weber». In questi giorni Del Vecchio pubblica Il tradimento e altre poesie (pagine 200, euro 15,00, traduzione e cura di Enrico Terrinoni), che farà finalmente conoscere la sua opera anche agli italiani. “Il tradimento” del suo poema più famoso è quello dello Stato nei confronti di suo padre e dei repubblicani durante la guerra civile del 1922. Quanto ha segnato la sua vita e la sua carriera? «Nel mio Paese ci siamo interrogati a lungo sulle motivazioni di chi lottò per l’indipendenza dell’Irlanda. Quando scoppiò la guerra civile, il fratello di mio padre si schierò tra i favorevoli al trattato [che impose la divisione del-l’Irlanda, ndr], mio padre era invece contrario, e per questo fu incarcerato. Credo che ogni serio nazionalismo debba essere incentrato sull’egualitarismo. Da sempre, nella tradizione rivoluzionaria dell’Irlanda, ci sono stati quelli che volevano essere liberi in un senso più ampio, non limitarsi alla libertà in campo economico e commerciale. Quelli che volevano per esempio l’uguaglianza nel campo dell’educazione. La mia poesia parla di questo: d’accordo, il Paese è diventato indipendente, abbiamo vissuto la tragedia della guerra civile, ma purtroppo una classe dirigente conservatrice e burocratica iniziò da allora a controllare lo Stato, voltando le spalle alla letteratura, al cinema, alle arti. Questo ha portato ad alcune pessime decisioni, per esempio per quanto concerne la censura. Coloro che lottarono per l’indipendenza in quegli anni, come mio padre, sono stati abbandonati da chi li aveva derubati del sogno di un’Irlanda libera e indipendente». Crede che lo Stato abbia in qualche modo tradito gli irlandesi anche durante la recente crisi economica? «Non è mio compito criticare i governi che si sono succeduti nel mio Paese, ma credo che ci sia stata mancanza di cultura, credo che il concetto che esista un singolo paradigma delle connessioni tra l’economia, la società e la vita sia estremamente sbagliato e pericoloso. Credo che oggi le agenzie di rating abbiano un’influenza sproporzionata sulle politiche europee per contrastare la crisi, e che ciò stia mettendo a rischio il ruolo dei cittadini nel governare le nostre democrazie. Servirebbe invece una pluralità di insegnamenti in campo economico, che avrebbe inevitabili conseguenze anche sulle scelte politiche. Per secoli il mondo occidentale si è battuto per raggiungere una forma compiuta di democrazia, ma adesso è condizionato dalla gestione tecnocratica di un singolo modello economico che è incapace di affrontare una gigantesca bolla speculativa, e che sta di fatto rendendo schiavo il mondo. In questo la penso esattamente come papa Francesco». Le sue poesie non parlano solo dell’Irlanda. L’America Latina, dove ha vissuto a lungo, è un altro dei temi centrali. Qual è l’insegnamento che ne trae? «Fui costretto a lasciare El Salvador nel 1982, poco dopo la strage di El Mozote – definita il peggior massacro di civili della storia dell’America Latina contemporanea – ed è stato toccante tornarci da presidente dell’Irlanda e incontrare i pochi gesuiti sopravvissuti a quel terribile massacro. Le poesie che ho scritto sul Salvador traggono ispirazione dall’esperienza che ho vissuto là, durante il periodo più drammatico della guerra civile. Gli omicidi avevano luogo durante la notte, i corpi venivano abbandonati nelle discariche di rifiuti, orrendamente mutilati, con le mani legate, e recavano sui loro corpi dei segni che erano quasi una firma dei loro assassini. Vedere quelle cose ti costringeva a fare i conti con la tua coscienza e accettare la trasformazione che avveniva anche dentro te stesso, sia fisica sia spirituale. Questa è forse la sfida dei nostri tempi, dove uno come me che è da sempre molto interessato alle teorie socialiste, senza essere un materialista, deve prendere la vulnerabilità e le ferite del mondo dentro di sé ed essere capace di sperimentare la gioia della solidarietà. Stiamo vivendo adesso uno dei nostri momenti più bui perché ci troviamo di fronte a omicidi di massa e stragi contro minoranze religiose. Eventi basati su un’interpretazione distorta delle profezie. Ci troviamo in un’epoca che necessiterebbe davvero di una leadership globale». Un anno fa ci lasciò la voce poetica e l’intellettuale di maggior spicco di tutta l’Ir-landa. Qual è l’eredità più preziosa di Séamus Heaney? «Il valore della generosità. Nella sua vita Séamus non ha mai posto limiti alle cose che faceva, e che avrebbe fatto per gli altri. È bene anche ricordare che lui, insieme a Michael Longley, a Derek Mahon e ad altri poeti del Nord Irlanda, aveva una profonda conoscenza dei miti greci, che gli consentiva di dare forma alla modernità in un modo tutto suo. Credo che, in particolare, la lingua di Heaney abbia avuto qualcosa di straordinario. Era una lingua che nasceva dalla collisione di due idiomi: l’irlandese e l’inglese. Le sue poesie esprimevano anche un grande senso di non perdere l’opportunità, nella nostra vita, di cogliere i momenti d’amore e farne tesoro. Se penso a Heaney penso all’amicizia, alla generosità verso il prossimo e alla sua disponibilità verso i giovani».