Agorà

REPORTAGE. Herat, Medioevo tecnologico

Laura Silvia Battaglia domenica 25 luglio 2010
Zan, zar, zamin. Donne, oro, terra. Per queste tre ragioni, si dice, l’Afghanistan è in guerra da sempre. Donne, oppio, controllo territoriale: questa è la posta in gioco oggi. Anche in una città evoluta come Herat, ovest dell’Afghanistan: la città dei poeti, dei mausolei, delle tombe dei venerabili, dei sufi afgani, dei comandanti mujaheddin, delle strade asfaltate, dei semafori, dell’energia elettrica, dell’acqua abbastanza corrente e dei parchi pubblici, del dialogo con l’Occidente, del commercio con l’Iran, dell’Hippy Trail, dei taxi collettivi e degli autobus Millie. Benvenuti nel Medioevo tecnologico, nel centro afgano che meglio ha conservato la sua cittadella vecchia sulla Via della Seta: il bazar Chahar Su con i suoi tre centri (commerciale, religioso, politico), i caravanserragli, la splendida Moschea del Venerdì, le 18 torri del forte militare sorto nel 1415 dopo il passaggio di Shah Rukh. Infine, la tomba della mitica regina Gowhar Shad nel santuario (ziarat) di Musalla, con quel che resta, dopo l’invasione sovietica, dei suoi 20 minareti, ridotti a cinque. Un luogo che è Medioevo perché qualche gari (calesse) c’è ancora, per consentire gli spostamenti, nonostante prevalgano le moto enduro (coloratissime e personalizzate) e i tricicli a motore (ramazan) carichi di uomini, capre, pacchi, donne, bambini. Tecnologico perché le bancarelle di telefonini e simili sono gettonatissime e, per i venditori di burqa, il nuovo mercato rappresenta un osso duro con cui confrontarsi. Questa è Herat, la città che sorge come un’oasi in una terra piatta e priva di ripari, – già visitata da Alessandro Magno e in seguito da Tamerlano – delimitata verso Nord dai bassi rilievi di Safed Koh e aperta a Sud verso Kandahar; da entrambi i lati funestata da deserti di sassi e sabbia, mentre il Bad-e-Sad (il vento dei 120 giorni) spira costante da fine primavera a inizi autunno e a luglio lo si saggia in pieno, bollente. Nonostante le possibili avversità, a Herat si progetta e si costruisce: la città vecchia viene ristrutturata e urbanizzata; la nuova (Shahr-e nau) ospita la maggior parte degli uffici governativi e delle Ong: un vero e proprio boom edilizio. A ciò si accompagna l’avviamento di alcuni progetti della Coalizione, di concerto con la popolazione locale. «Ma non ci si illuda sul fatto che prima di attivare qualsiasi intervento, la trafila è lunga: il sistema di relazioni su cui si basa la società afgana deve tenere conto delle amministrazioni locali, dei governatorati, ma non può prescindere dall’approvazione degli elders, dei capi villaggio. Senza il loro sì ogni iniziativa stenta a decollare». Così parla il colonnello Emanuele Aresu, comandante della squadra di ricostruzione provinciale (Prt) di Herat. Non più di un mese fa, ad esempio, nel distretto di Kushki Rebat Sangi, si è tenuta una grande shura(incontro) con oltre 150 persone tra mullah, capi-villaggio e autorità formali e informali del distretto. Obiettivo, convincere i rappresentanti delle comunità locali a collaborare con le forze della coalizione e con il governo Karzai, soprattutto in vista delle elezioni amministrative, il 20 settembre prossimo. I governatori provinciale (Ahmed Nuristani) e distrettuale (Mohammad Asef Sakha) ci confermano che «questa shura è stata un evento non da poco». Ma è solo un primo passo. Uno degli obiettivi della Coalizione è approcciare i contadini e convincerli che la coltivazione dello zafferano è redditizia almeno quanto quella d’oppio, che è l’oro del Paese (secondo stime Onu, l’Afghanistan produce il 92% del totale di oppio nel mondo, pari a 6100 tonnellate di raccolto per 60 milioni di dollari in volume d’affari). «La coltivazione dello zafferano nella provincia di Herat è in netta espansione – rivela il diplomatico Sergio Maffettone –; da una estensione iniziale di 16 ettari nel 2004, si è passati a 310 nel 2009, con una produzione di 5 chilogrammi di zafferano per ettaro». Lo zafferano è molto più redditizio del grano (il prodotto lordo per ettaro è valutato in 12mila dollari per lo zafferano, contro i mille del grano): difficile però, ancora, sradicare la convinzione che sia più conveniente dell’oppio. I contadini che lo coltivano, peraltro, ricevono pagamenti immediati e cash dalla vendita «all’ingrosso». Non c’è sviluppo del territorio, ma anche controllo sulle vie dell’oppio se non si regolano i transiti. Non stupisca dunque il milione di euro e più messo a disposizione dal Ministero della Difesa per stendere 5 kilometri di asfalto solo nella città di Herat. Migliorare la viabilità equivarrà anche a facilitare l’accesso all’istruzione. In Afghanistan almeno il 10,4% dei bambini abbandona la scuola per l’eccessiva distanza da casa. A Kush Rod, un piccolo villaggio a 15 kilometri da Herat, dove Mario Cutuli – il fratello di Maria Grazia, la giornalista del Corriere della Sera uccisa in Afghanistan nel 2001 – ha posto la prima pietra di una scuola per i 600 bambini del villaggio intitolata alla sorella, troviamo conferma. Il capo della shura locale, Jamal Sha, è uno dei fautori dell’accordo per la costruzione di queste otto classi immerse in un orto-giardino: «Da noi i bambini non lavorano prima dei dieci anni»". Però la vecchia scuola era un tugurio. «Per fortuna – dice Ismail – le nostre bambine studiano: noi siamo mujaheddin, non taliban, e siamo per l’educazione. Certo, preferiamo che le donne non facciano troppa strada a piedi ». Quindi, se la scolarizzazione in Afghanistan è difficile, l’istruzione universitaria è quasi impossibile. Paradigmatica è la storia di Sana (ma è un nome di fantasia, necessario per proteggere la sua identità) che lavora a stretto contatto con il tenente Sonia Mancini, una giornalista che dal 2004 è riserva selezionata dell’esercito, oggi a capo del progetto Radio Sada-e-Azadi-West, una radio «per» gli afgani, sostenuta da Isaf, con programmi in dhari e pashtun. Sana è laureata in giornalismo a Herat, ha vissuto negli Usa, ha già lavorato in una radio locale. È madre, ma il bambino le è stato sottratto dal marito quando aveva 23 anni. Poi, la guerra. Ma ha deciso di ricominciare e la famiglia di origine la incoraggia a una vita nuova. Lei, adesso, è felice, e dispensa via radio consigli alle donne su come allattare il proprio bambino. Del resto, prima di dircelo Sana, lo aveva scritto la poetessa di Herat Nadia Anjuman, morta a 25 anni nel 2005, in seguito alle percosse del marito: «Sono stata silenziosa troppo a lungo. Ma non ho dimenticato la melodia».