Musica. Il direttore Antonini: «Vi svelo il segreto di Haydn»
Giovanni Antonini sul podio del Giardino Armonico impegnato nel progetto Haydn2032 (Foto Benjamin Pritzkuleit)
Diciotto anni per 107 sinfonie. Giovanni Antonini avrà 67 anni nel 2032, quando è prevista la conclusione del progetto di esecuzione e incisione (al ritmo di due programmi all’anno) di tutto il corpus sinfonico di Franz Joseph Haydn, per il terzo centenario della morte. Il musicista milanese, tra i pionieri della musica antica in Italia e i protagonisti nel mondo, lo sta realizzando con Il Giardino Armonico, compagine da lui fondata nel 1985, e la Kammerorchester Basel, con la quale questa sera sarà al Parco della Musica di Roma per le Sinfonie n. 3, n. 26 “Lamentatione”, n. 30 “Alleluja” e n. 79, sesta tappa della lunga road map. Alpha Classics sta per pubblicare il cd del quarto programma, intitolato Il distratto, con Il Giardino Armonico. Ogni uscita (disponibile anche in vinile) presenta saggi musicologici di approfondimento e un commento per immagini a firma di fotografi dell’agenzia Magnum.
Antonini, come nasce il progetto? E come viene composto ogni programma?
«È stata una richiesta della Haydn Foundation di Basilea, voluta da mecenati per rilanciare e ripensare la figura del compositore. Cerchiamo un tema sotto il quale unificare nuclei di sinfonie, a cui affiancare altri brani di Haydn o di autori a lui contemporanei. Il distratto, ad esempio, comprende la Sinfonia n. 60che Haydn ha tratto dalle parti strumentali dell’opera Il distratto, e il cui finale si “interrompe” per consentire ai violini di accordarsi. A questa abbiamo affiancato Il maestro di cappella di Cimarosa, un intermezzo comico che ritrae, con una interazione tra cantante e orchestra, un direttore un po’ fanfarone».
Cosa significa lavorare su un progetto che copre quarant’anni di attività?
«Al momento della proposta ero frastornato. Non mi preoccupava tanto arrivare al 2032, quanto riuscire a tenere costante un interesse personale nei confronti del progetto, continuare con la chiave di lettura scelta e insieme garantire il senso di evoluzione tra un programma e l’altro. Ma il livello qualitativo del repertorio è molto alto. Anche nelle prime sinfonie ci sono sempre cose interessanti: sono miniature, piccoli tesori».
Haydn di solito è osservato in termini retrospettivi, attraverso il cannocchiale Beethoven - Mozart. La sua esperienza di interprete, Antonini, procede da una strada in cui, passando per Vivaldi, Haydn arriva “in fondo”.
«Sì, la mia è una visione che parte da molto prima di Haydn, almeno dal Seicento. Quando si legge Haydn muovendo da Beethoven, se ne ha una visione in senso evolutivo. Sembra che Haydn abbia inventato un genere, perfezionato poi da Mozart e Beethoven. Penso sia sbagliato. Certo il suo mondo è alla base di molto di ciò che è seguito, ma è anche un universo a sé: espressivo, ricco di immagini, di valori, indipendente. Avendo conosciuto e suonato Vivaldi ma anche il primo barocco, si arriva a Haydn con la coscienza dell’importanza del gesto musicale, che va non solo eseguito ma anche rappresentato».
Come leggere queste partiture?
«Non serve limitarsi a suonare in modo rispettoso, ma occorre andare a fondo senza paura, in modo simile a quello che abbiamo applicato alla musica di Vivaldi. Come già diceva Carpani, il primo biografo di Haydn, in questa musica c’è una storia nascosta, un racconto, che viene tradotto in suoni. È un’osservazione che ci porta alla componente retorica, vicina all’estetica barocca. Se così affrontata, questa musica, che spesso può sembrare noiosa, all’improvviso comincia a parlare: è una questione di metodo. Il segreto è la teatralità, che viene messa in scena dall’esecutore. Gli strumenti antichi in questo aiutano, mentre le esecuzioni di Haydn sugli strumenti moderni sono meno efficaci».
Haydn come figura di cerniera?
«Haydn ha avuto vita lunga. È stato educato musicalmente quando erano vivi Bach e Telemann. Cresciuto nel mondo barocco, entra in contatto con Beethoven, di cui è la miccia. Eppure resta uomo del Settecento. Haydn si considera un artigiano, un servitore di corte. Nella sua produzione, tra la Sinfonianumero 1 e la 107, c’è un viaggio incredibile. Cambiano gli stili, ci sono svolte, sperimentalismi. Bisogna dialogare con Haydn, anche dove appare strano».
In che senso?
«Haydn era considerato musicista estroso, per i suoi cambi di umore. La sua musica è sublime e subito dopo di un’ironia grottesca. È come nei drammi giocosi di Mozart, ossia come la vita, dove tutti gli elementi si combinano. È un carattere che non tutti hanno apprezzato. Schumann ne provava fastidio: lo stesso provato verso la musica italiana, ritenuta superficiale».
Che rapporti ha Haydn con la musica italiana?
«È l’ambiente in cui è cresciuto. D’altronde i musicisti italiani avevano dominato per secoli l’Europa. Nella Sinfonia n. 6 “Il mattino” ci sono citazioni dal concerto per la notte di Natale di Corelli. Dove Haydn ha lavorato, le biblioteche musicali erano costituite dal barocco italiano: Vivaldi, certo, ma anche i napoletani come Porpora, da cui prese lezioni».
Faceva cenno alla necessità, a suo avviso, di eseguire Haydn con strumenti antichi. Lei dirige anche importanti orchestre come i Berliner Philharmoniker o il Gewandhaus di Lipsia. Cosa comporta il passaggio da ensemble specializzati nella prassi filologica a orchestre di impostazione tradizionale?
«C’è innanzitutto un rapporto più formale. Si ha meno tempo per le prove. E in quel poco tempo devi comunicare un’idea differente. C’è ad esempio una consuetudine nei programmi da scardinare: si apre con Haydn come per riscaldarsi, quasi pagando pegno, e poi si chiude con Šostakovic, che è il piatto forte. È una prassi che ha fatto danni. Ma se provi a immaginare la parte non scritta, come un attore che recita un testo, si apre un mondo incredibile. È un lavoro interessante. Va però detto che ormai in queste orchestre molti musicisti hanno nel loro astuccio anche un archetto barocco. C’è una nuova coscienza stilistica che apre una luce verso questa musica».
Sono diversi i direttori, come Harnoncourt e Gardiner, che partiti dal barocco hanno esteso l’arco cronologico del repertorio. Lei è arrivato fino a Beethoven e al melodramma. Da cosa dipende questa scelta?
«Per me anche da occasioni pratiche. Per l’integrale delle Sinfoniedi Beethoven, realizzata con la Kammerorchester Basel, è arrivata una proposta specifica. Così è stato per la Norma, propostami da Cecilia Bartoli per Salisburgo nel 2013. Quando le ho detto che non ero esperto, mi ha risposto “meglio così”. C’è la possibilità di leggere una musica senza passare per tradizioni e convenzioni di cui si è persa la ragione. Ho studiato Bellini non con gli occhi di Verdi ma di Monteverdi. Serve spirito di avventura: ma è il percorso da autodidatta che mi contraddistingue. Sono partito dal flauto, il mio strumento, e poi con Il Giardino Armonico ho imparato a fare il direttore. Il mio vantaggio e svantaggio è non avere sentito il peso di un modello. Apprezzo Karajan, ho ascoltato Toscanini. Ma di loro mi interessa il principio: l’idea alla base, non il dettaglio. Capire l’essenza di quello che fanno».