Perugia. I polittici di Hans Hartung, il segno come narrazione
Hans Hartung, T1973-E44 T1973-E45 T1973-E46 T1973-E47, 1973, acrilico su tela, 130 x 230 cm (Fondazione Hartung-Bergman)
La stagione dell’informale europeo negli ultimi anni appare, a torto, negletta rispetto a quella dei fratelli americani. A torto perché artisti come Soulages, Tàpies o Vedova hanno poco da invidiare a molti colleghi dell’action painting. Ma l’arte d’Oltreoceano ha imparato prima degli altri il vantaggio di avere buoni copywriter, e così etichette efficaci sotto il profilo comunicativo ma ormai sempre più labili sotto quello critico hanno definito recinti e gerarchie che necessitano di essere riconsiderati.
Un’occasione ideale per rammentare le qualità del Vecchio Continente è la mostra, per la quale il superlativo bellissima non è sprecato, che la Galleria Nazionale dell’Umbria dedica ad Hans Hartung e in particolari ai suoi “polittici”, un nucleo del suo lavoro qui esplorato a fondo per la prima volta (catalogo Magonza). Un museo ricco di trittici e polittici appare come sede di elezione per una mostra di questo tipo. Il curatore Marco Pierini, direttore della Galleria, sottolinea la differenza tra la funzione originaria dei polittici medievali e l’autonomia di questi lavori, di cui riconosce la «spiritualità non religiosa ma cosmica».
Si tratta di 16 dipinti di dimensione grande o gigante dal 1961 al 1988, a cui si affiancano 40 opere su carta di estremo interesse perché consentono di osservare da vicino il metodo di lavoro di Hartung per riquadri in parallelo. Queste opere nascono in modo differente: da una parte l’artista le assembla componendo tele già esistenti, annotando la struttura dei comparti (la ricostruzione è stata resa possibile grazie all’archivio della Fondazione Hartung-Bergman di Antibes), in altri nascono invece già come sequenze. Dove la segmentazione del segno si distribuisce in continuità su più pannelli lo spettatore è indotto a una sorta di lettura quasi narrativa nel senso dello scorrere di una scrittura o di una partitura. Lo sono in particolare alcuni lavori costruiti su tele basse e lunghe (70 centimetri per 6 metri complessivi), strisce che possono essere osservate in un colpo d’occhio soltanto da estrema distanza, mentre la visione ravvicinata costringe un approccio diacronico. Sono tra i pezzi più interessanti, che appaiono come ritagli fortemente ingranditi. Il procedimento suggerisce una spazialità molteplice, una sorta di profondità frattale, in cui la selva di segni si fa tridimensionale.
Nei polittici antichi, invece, non si dà reale narrazione – le figure sono sottoposte a stasi – e nemmeno una lettura da sinistra a destra (se non nella predella), mentre la struttura verticale separa registri ma non precisa sequenze temporali: si tratta di scomparti di un’unica visione (oppure visioni separate) che gravitano attorno allo scomparto centrale, il principale. Più vicini a una struttura di questo tipo sono i polittici paratattici, come T 1962 L21 - L22 - L23, dove il pannello più stretto presenta segni grafici dal sapore quasi meccanico avvolti in una luce gialla su fondo blu-verde mentre nei laterali, più larghi, aleggia una luce grigia.
In ogni caso a dispetto della centralità del gesto, la pittura di Hartung risiede su controllo e una base razionale. L’elemento gestuale – che può essere graffio, striscia, grafema – appare sempre sottoposto a una meditazione preventiva e una riflessione sul rapporto tra segno e spazio.