Il regista. Guzmán: «Il Cile deve ancora guarire dal golpe dell'11 settembre 1973»
Un’immagine di “Cile - Il mio Paese immaginario” di Patricio Guzmán, nei cinema dall’11 settembre
«Ho perduto molte cose nella vita ma non l’entusiasmo. Come ho fatto? Ho imparato che ciascuno di noi è chiamato a ricostruirlo dopo ogni delusione. È l’unico modo per non smettere di vivere». A 82 anni, la voce di Patricio Guzmán è flebile. Ma dentro ogni sillaba risuona lo slancio del trentenne rientrato in Cile dalla prestigiosa Scuola ufficiale di cinematografia di Madrid proprio quando, per la prima volta, un socialista aveva conquistato il potere con le schede elettorali. E quell’uomo, Salvador Allende, si accingeva a fare la rivoluzione all’interno dell’ordine costituzionale. Un esperimento inedito nel mondo spezzato in due blocchi contrapposti e, per questo, destinato a plasmare l’immaginario della sinistra ben oltre le Ande. «L’intero Paese era uno straordinario documentario. Svoltavi l’angolo e c’era una manifestazione, due strade dopo un collettivo artistico improvvisava un laboratorio. Avevo gli occhi pieni di immagini, dovevo solo prendere una telecamera e filmare. E l’ho fatto».
Per oltre un anno, Guzmán ha girato nelle fabbriche occupate di Santiago, nelle campagne in fermento, nelle piazze teatro di comizi e dimostrazioni di segno opposto. «È nato, così, nel 1972, Il primo anno. Una pellicola tanto potente da attirare l’attenzione del famoso Chris Marker, il cui contributo sarebbe stato fondamentale per consentire al giovane regista di proseguire il racconto della “rivoluzione cilena” con La battaglia del Cile fino al tragico epilogo dell’11 settembre 1973: il golpe di Augusto Pinochet. L’opera monumentale, articolata in tre parti, è scampata alla furia distruttrice della dittatura grazie a una fuga rocambolesca, è stata montata in esilio e proiettata in patria solo nel 1997, sette anni dopo la fine del regime. La pellicola di Il primo anno, invece, tranne qualche spezzone superstite, sembrava perduta per sempre. Poi, nel 2013, una copia è spuntata in una cineteca della provincia francese, nazione adottiva dell’esule Guzmán e di Renate Sachse, moglie, produttrice, compagna di vita e di percorsi artistici.
Per cinque anni, insieme, hanno presieduto al minuzioso lavoro di restauro del documentario e di La battaglia del Cile. Nemmeno la pandemia li ha fermati. Li ha, però, fatti ritardare in modo che terminassero appena prima del cinquantesimo anniversario del golpe. I due lavori simbolo del Cile di Unidad popular tornano nelle sale internazionali proprio per l’occasione. Mentre in Italia arriva per la prima volta, a partire da lunedì, distribuito da Zalab e I Wonder, Il mio Paese immaginario, dedicato alla riscrittura della Costituzione, dopo le proteste del 2019. «È una fortunata coincidenza. È il più bel tributo che potessi sognare per il presente e il futuro del mio Paese», afferma il cineasta, che è appena stato insignito del prestigioso Premio nazionale di arte dal ministero della Cultura cilena.
Patricio Guzmán è considerato il regista della memoria. Come emerge dai suoi 14 lungometraggi per i quali ha ricevuto oltre 70 riconoscimenti, tale termine non significa mera custodia del passato. C’è un filo rosso che unisce Il primo anno e La battaglia del Cile con Il mio Paese immaginario?
Patricio Guzmán - -
Il Cile è un Paese che ha vissuto molte catastrofi naturali e politiche. Nessuna, però, paragonabile al golpe del 1973. Ha interrotto, di colpo e con una forza sconosciuta, una lunga tradizione demo-cratica, devastato le istituzioni e l’ordine costituzionale. La nazione e i suoi abitanti sono caduti in un abisso da cui impiegheranno un secolo per riprendersi pienamente. Siamo a metà strada. Fare i conti con quanto è accaduto, con la figura di Salvador Allende e con il suo sogno, ci aiuta a camminare più spediti. Con slanci importanti, come il processo costituente che ho raccontato ne Il mio Paese immaginario.
E quello reale come ha proceduto finora?
Tutto sommato, il percorso di ricostruzione democratica va avanti bene, anche se non è perfetto. Per la storia vale la stessa regola dei documentari: avere pazienza.
Ed entusiasmo… Già, ma quello dobbiamo ricrearlo ogni volta. Il Cile è un Paese atipico. Non ha un centro, nella sua geografia stretta tra le Ande e il Pacifico si concentrano tutti gli estremi. È in America Latina ma si è sempre considerato un po’ un’eccezione nel Continente, da qui l’idiosincrasia nei confronti dei popoli indigeni. Sembra immobile quando, in realtà, è in continuo movimento, come dimostrano i suoi risvegli repentini, in cui viene fuori la sua straordinaria energia. Ecco, io cerco di concentrarmi su quest’ultima. Di raccontare le trasformazioni impercettibili realizzate, giorno dopo giorno, da quanti non si rassegnano all’abuso, all’ingiustizia, alla sopraffazione. Ne ho incontrati tanti. Sono loro i protagonisti dei miei documentari.
Il Cile celebra il cinquantesimo anniversario del golpe con a La Moneda un presidente under 40 che si richiama esplicitamente all’esempio di Allende, pur declinato in chiave contemporanea e arricchito di nuove istanze, dalla parità di genere all’ecologia. Come valuta Gabriel Boric?
Vive una sfida non facile, le difficoltà incontrate nel processo di riscrittura della Costituzione sono una conferma. Piano piano, però, sta portando avanti il suo progetto per costruire un Paese più democratico e solidale. Non ha la bacchetta magica, come molti vorrebbero. Ripeto, il Cile è un Paese che è stato disfatto e necessita tempo per ricostituirsi. Boric sta proseguendo con una certa abilità nell’azione di restauro.
Per tre anni, lei ha seguito in presa diretta Salvador Allende. Che cosa l’ha colpita maggiormente di questa figura, mitizzata da alcuni, odiata da altri?
In realtà, la figura di Allende è stata, a lungo, rimossa, sia dall’élite – che temeva di perdere i suoi privilegi - sia dalla classe media, traumatizzata dal golpe. Ora si sta ricominciando a recuperarla nel suo contesto. Personalmente, considero un privilegio averlo potuto vedere in azione: era un uomo sobrio, riservato e, al contempo, molto carismatico, capace di mettere in movimento l’energia di un popolo.
Quale è stato il suo errore più grande?
Ne ha fatti tanti. Penso che tutti derivassero, però, dalla necessità di stare in equilibrio tra i vari estremismi.
Che cosa augura al Cile per i prossimi cinquant’anni?
Di essere una casa in cui tutti, a cominciare dai più fragili, trovino posto.
Anniversario di cinema e spettacoli
Lunedì 11 settembre, a 50 anni esatti dal golpe in Cile, uscirà nelle sale italiane Il mio Paese immaginario, di Patricio Guzmán presentato fuori concorso a Cannes nel 2019. Il documentario, che racconta attraverso lo sguardo femminile le proteste del 2019, sarà distribuito da Zalab, collettivo di Andrea Segre, e I Wonder con il patrocinio dell’ambasciata del Cile in Italia. Le iniziative della rappresentanza diplomatica cilena in Italia proseguono oggi e lunedì con un doppio concerto degli Inti Illimani Históricos, band che è nata nel 2004 dai tre esponenti storici del gruppo musicale cileno molto conosciuto negli anni Settanta e Ottanta: Horacio Salinas, José Seves ed Horacio Durán. Da domani, inoltre, Zalab e I Wonder riportano nelle sale della Penisola quattro tra i più noti lavori di Patricio Guzmán: Salvador Allende (2004), e la trilogia Nostalgia della luce (2010), La memoria dell’acqua (2015) e La Cordigliera dei sogni (2019). Il calendario delle proiezioni è disponibile su www.zalab.org