Musica. Guy One: «Il mio spirito afrofunk ora spopola anche in Nord Europa»
Guy One, è nato nel villaggio Nyariga, nel Nord del Ghana
È cominciato tutto quando avevo più o meno otto anni: mi mettevo a cantare quand’ero triste durante il duro lavoro nei campi, e presto ho capito che la musica mi dava coraggio, mi permetteva di andare avanti, mi rafforzava». A parlare è Guy One, nato nel 1972 nel villaggio Nyariga, estremo Nord del Ghana, e sin da piccolo costretto dagli eventi a governare capre e mucche accanto al padre agricoltore senza alcuna possibilità di frequentare scuole, almeno prima che la musica gli cambiasse la vita. Da quando si è innamorato delle sette note Guy One da autodidatta ha imparato a costruirsi strumenti, suonare e cantare, diventando a trent’anni riferimento non solo artistico della comunità rurale Frafra tra Ghana e Burkina Faso, e iniziando poi a vivere di dischi nel Paese: sino a vincere nel 2012 il Ghana Music Award come miglior musicista tradizionale dell’anno. Oggi Guy One, che sino a cinque anni fa non aveva mai messo piede fuori dalla patria, è reduce da un lungo tour in Africa, Germania, Polonia, Olanda, Danimarca e Regno Unito: e col batterista free jazz e produttore Max Weissenfeldt ha appena realizzato l’album #1, stupefacente esempio di musica “local” che però spopola fra radio, critica e locali dell’Europa del Nord.
#1 è un accattivante mix di racconto umano e canto dei valori posato sul tessuto ispido e graffiante di ritmiche e strumenti tipici della musica tradizionale dell’etnia Frafra: miscelati però con suoni e strutture che riecheggiano funky, black music, a tratti persino jazz e dance elettronica contemporanea. Pur cantando sempre in lingua Frafra (solo un brano del cd è in inglese), e suonando solo il banjo a due corde detto kologo, nel 2018 Guy One è così: maestro spirituale in patria dove celebra matrimoni, battesimi e funerali per la sua etnia e dove fuori dai villaggi Frafra è chiamato “Second Jesus”; si alterna fra la musica da professionista e una vita di marito, padre di figli che manda a scuola e proprietario di un negozio di dischi; ora è pure protagonista di un’avventura da star dell’Afrofunk, in un’Europa che sembra poter lanciare la sua musica addirittura oltreoceano.
Che cosa rappresenta la musica per lei oggi?
«Sono un suonatore tradizionale di kologo, il che implica grande responsabilità verso la gente della mia etnia: per loro chi suona il kologo è maestro e guida. Per tutto l’anno prendo parte a matrimoni e funerali, ma la gente mi rispetta anche per i messaggi dei miei brani. Avevo scritto una canzone dicendo che i genitori avrebbero dovuto mandare i figli a scuola, e molti bambini delle aree rurali ora ci vanno; di tanto in tanto mi presto a esibizioni private per dissuadere persone dal suicidarsi… Non sono un mero intrattenitore come altri suonatori di kologo, cerco anche di fare da psicologo, di aiutare e passare messaggi di crescita».
Sente responsabilità anche proponendosi in Europa?
«È da quando faccio musica professionalmente che sono consapevole di avere responsabilità: nei dischi usciti in patria comunico senso di identità e speranza al mio popolo, parlandogli degli antenati e facendogli scoprire la nostra cultura. In Occidente so di non raggiungere nessuno con i testi, ma anche quest’avventura in fondo l’ho iniziata per la mia gente: so quanto sono orgogliosi di chi trasporta la nostra cultura nel mondo, anche solo con la voce».
L’ha disturbata essere soprannominato “Second Jesus”?
«È un soprannome che i Frafra mi hanno incollato addosso dopo il successo di un brano con quel titolo, e non posso fare altro che trovarlo simpatico. Però vivo la vita di sempre, suono e canto come sempre: semmai da allora c’è più gente ad ascoltarmi».
Che cosa pensa dello show-business occidentale?
«Per fortuna il progetto della Philophon Records, etichetta di #1, e di Weissenfeldt non ha nulla a che fare con le grandi industrie, che non ho mai avvicinato. È una faccenda di ideali, siamo amici che fanno la musica che sentono: tutto qui».
Che concetti trasmette, nella sua lingua, in #1?
«Nel brano Bangere tomme?, che significa “Chissà domani?”, parlo dell’importanza del passato e di come il futuro non sia nelle nostre mani. In Ete songo canto “Buone azioni”, cioè l’integrità di mio padre Akagaam, suonatore di violino Gooji, che mi ha insegnato molte canzoni ma soprattutto la coscienza di quanto ognuno sia responsabile della propria reputazione. Poi in Yelmengere de la gu’usi, “La verità duole”, dico che la verità può far male ma le bugie non permettono di guardare a domani. E al centro di Sella n’de hu dene, “Ogni cosa ti appartiene”, ci sono i valori della mia famiglia: difendere le proprie conquiste e non invidiare né sfiorare mai tutto ciò che è di altre persone».
Ora che progetti ha questo “nuovo” Guy One? Ha in mente di fermarsi in Occidente per fare musica?
«No, continuerò a suonare il kologo e a cantare come sempre: solo più aperto di prima a nuove idee e nuove proposte che arrivassero dall’esterno, magari anche dall’estero. Però il mio vero pubblico è e resta la mia gente, l’etnia Frafra nei cui confronti ho responsabilità che non posso certo eludere».