Shoah. Guttmann, il "salvato" che conquistò l'Europa
Guttmann calciatore nel club ebraico dell’Hakoah Vienna;
«Ti prego mister, fai in modo che questa sera il Benfica batta il Milan e possa finalmente rivincere la Coppa dei Campioni...». È la preghiera accorata dell’ex allievo, la “Perla nera” del Mozambico Eusebio, inginocchiato sulla tomba viennese del suo maestro, Béla Guttmann, alla vigilia della finale del Prater, 23 maggio 1990. Vinse il Milan di Arrigo Sacchi (1-0) e l’anatema lanciato, nel 1962, alla società lusitana dal tecnico ungherese («Il Benfica senza di me non vincerà mai più una Coppa dei Campioni») è proseguito, inesorabile, fino ai giorni nostri. E nei “giorni della Memoria”, lo spettro di Guttmann si aggira ancora per gli stadi, come fa il Golemper le vie dell’antico ghetto ebraico. Alle nuove generazioni che non hanno mai sentito parlare dell’«ebreo errante della panchina», diciamo subito che ci troviamo di fronte all’archetipo dell’allenatore contemporaneo., l’antesignano dei vari specialisti: Mourinho, Pep Guardiola o Klopp.
Béla Guttman con la Coppa dei Campioni vinta dal Benfica, assieme al pupillo Eusebio - alla sua destra - .
«Storia del primo grande allenatore di calcio», sottolinea David Bolchover nel sottotitolo del suo imprescindibile volume, finalmente tradotto in italiano, Béla Guttmann. Il grande ritorno( Milieu. Pagine 256. Euro 17,90). Storia di un visionario, le cui fortune in campo e la vita avventurosa tenuta fuori, originano anche dal fatto di essere entrato nella formazione dei “salvati” dall’Olocausto. La leggenda del tecnico magiaro e la sua «unicità» va infatti rintracciata in quella che Bolchover identifica come l’humus in cui si è formato il giovane Béla (nato nell’ultimo anno dell’800), «la vivacissima e creativa società ebraica dell’Europa centrale e orientale al suo ingresso nell’ultima fase prima del suo quasi totale annientamento». Un danzatore, figlio di ballerini, entrambi ebrei, Abrahàm ed Eszter, cresciuto sulle punte tacchettate degli scarpini da calcio, attraversando spesso a piedi nudi sentieri disseminati di pezzi di vetro che l’esistenza aveva piazzato sul suo cammino.
Ma lo ha fatto sempre giocando e vivendo a testa alta, con la stella di David stampata sul cuore fin dagli esordi nel Torekves. Poi il grande lancio nella MTK (Magyar Testgyakorlók Köre) di Budapest. Una squadra di invincibili, basti pensare che conquistò il titolo nazionale ininterrottamente dal 1916 al ’25, Sei undicesimi della formazione titolare era composta dalla meglio gioventù ebraica magiara («l’impatto della popolazione ebraica fu incredibilmente sproporzionata rispetto alle sue dimensioni », sottolinea Bolchover), e Guttmann si guadagnò la prima pagina dei quotidiani di Budapest quando al debutto con la nazionale d’Ungheria segnò un gol alla Germania. Ma nonostante l’ottima fama e i due scudetti vinti con la MTK, il ritorno in patria della stella Nyul (prestato al club ebraico romeno dell’Hagibor Cluj) nel 1921 lo indussero a rispondere alle sirene dei munifici “globetrotter” del calcio sionista, l’Hakoah di Vienna.
una lezione “didattica” con la Triestina - .
Nella lingua ebraica, Hakoah significa «forza» o «potere», due comandamenti che il giovane Béla ha precocemente mandato a memoria come i precetti del Talmud. Guttmann divenne uno degli “eroi di Londra”: l’Hakoah ridicolizzò il fortissimo West Ham, sconfitto per la prima volta in casa da una squadra straniera, per di più con un cappotto, 5-0. Il 1924 è l’anno della svolta: la lega austriaca riconobbe il calcio come sfera del professionismo, Guttmann trascinava la squadra alla vittoria del titolo nazionale e il club lo ricompensò con un ingaggio pari alla quarta parte del bilancio finanziario stagionale. Nella successiva turnèe americana Béla divenne ben presto ricco e famoso grazie ai dollari ricavati dalle esibizioni con l’Hakoah All- Stars, più quelli dei tanti allievi della scuola di danza aperta assieme al fratello nella “Grande Mela”.
Un sogno il suo che crollò assieme a Wall Strett, nel 1929, restando praticamente al verde. «Feci dei buchi neri negli occhi di Abramo Lincoln sulla mia ultima banconota da cinque dollari...», raccontava Guttmann. Dopo il crac, sconsolato fece ritorno a Vienna per chiudere la carriera nell’Hakoah che, nel ’34, l’anno del primo titolo mondiale dell’Italia di Vittorio Pozzo, lo fece debuttare come allenatore. Un decennio di crescita professionale interrotta dalla shoah dalla quale, la leggenda racconta, Guttmann scampò venendo internato in un campo di prigionia in Svizzera. In realtà, molto probabilmente standosene nascosto nei pressi di Budapest l’arguto Béla riuscì ad evitare la deportazione che invece non risparmiò 430mila ungheresi. Nei campi di sterminio entrarono più di 8mila suoi connazionali al giorno, «un’esecuzione ogni 11 secondi ».
Anche sua madre Eszter «sfuggì alla carneficina, morì nel 1941 di diabete», ricorda Bolchover, ma il resto dei suoi cari, padre, fratelli e zii, furono vittime sacrificate all’Olocausto, anche se sulla tomba di famiglia fece scrivere «morti all’estero». All’estero si consumò la sua esistenza e il passato divenne una terra straniera. Ben 14 Paesi (dal Brasile a Cipro) lo accolsero come tecnico che si portava dietro l’aurea del carismatico che era riuscito a sfuggire all’inferno dei totalitarismi, stalinista e nazifascista. Destino analogo a quello dell’amico e connazionale Erno Erbstein, allenatore del Grande Torino, sfuggito alla doppia deportazione e poi caduto nella sciagura aerea di Superga, il 4 maggio 1949. Grazie ad Erbstein in quell’anno infausto Guttmann prese le redini del Padova.
All’Appiani scrisse il primo capitolo della sua esperienza in Serie A che lo vide protagonista di campionati contrassegnati da piccole imprese e altrettanti esoneri: cacciato dalla Triestina del presidente ebreo Leo Brunner, dal Vicenza in cui allenò il giovane Azeglio Vicini futuro ct azzurro e anche dal Milan dell’altro ct Cesare Maldini e dell’elegante fuoriclasse uruguayano, “Pepe” Schiaffino. Il Milan segnò la sua consacrazione da tecnico nella stagione 1954-’55, ma sotto la Madonnina lasciò anche una delle tante ombre tragiche che l’hanno marcato a uomo fino alla fine dei suoi giorni: un’incidente, alla guida di un’auto, costò la vita al 17enne Giuliano Brene.
Dalla galera lo salvò lo “zeligiano” factotum Dzeno Solti che si era autoaccusato delle morte del giovane studente, ma Guttmann non salvò la panchina: venne clamorosamente licenziato dal presidente del Milan Angelo Rizzoli, alla 20ª giornata, con la squadra al comando della classifica che poi andò a vincere lo scudetto con il suo «cospiratore », il subentrante Ettore Puricelli. Una beffa che da lì in poi fino al suo ultimo incarico (al Porto, nel 1974) gli fece firmare solo contratti in cui pretendeva la clausola: «Non potrò essere esonerato nel caso in cui la squadra sia prima in classifica».
Al Benfica dove costruì il suo capolavoro, arrivò dopo aver insegnato il “metodo” ai brasiliani (vinse il titolo brasiliano con il San Paolo) e trionfato nella massima serie portoghese guidando gli acerrimi nemici del Porto. Da quel Cagliostro di bordo campo che è stato, in ogni luogo in cui ha portato il suo bagaglio di uomo d’avanguardia, Guttmann ha sperimentato la capacità di entrare empaticamente nelle menti dei suoi giocatori per ottenere il massimo dalla squadra. Come Béla nessuno mai... Nella storia del Benfica rimane l’unico allenatore in grado di vincere due edizioni di fila della Coppa dei Campioni. Nel ’62, l’ultimo sigillo europeo del club di Lisbona contro il più “galattico” Real Madrid di sempre, quello di Puskás e Di Stéfano, umiliato con un perentorio 5-3. Per quel successo chiese un adeguato ritocco economico dello stipendio, ma la dirigenza del Benfica non solo glie lo negò, ma lo irrise, portandosi dietro l’annoso anatema. Quel rifiuto, fu la sconfitta più amara del prodigo Béla che, fino al 90’ della sua avventura su questa terra (morì nell’81) soleva ripetere agli allievi di campo: «Durante la mia vita sono stato più volte in svantaggio che in vantaggio...».