Agorà

LA STORIA. Gurrumul, l'aborigeno cieco che sta rivoluzionando il pop

Andrea Pedrinelli lunedì 14 dicembre 2009
Sono nato cieco, non so perché. Ma Dio lo sa, perché mi ama. E il mio spirito è cresciuto fino ad imparare a leggere questo mondo di distruzione: uniti stiamo in piedi, divisi cadiamo. Insieme ce la faremo, nella solidarietà». Versi come questi paiono fuori moda in un mondo che sembra sempre più cinico: tanto più se inseriti in un cd destinato a mercati internazionali. Invece questi versi, da I was born blind (Gurrumul history), ovvero «Sono nato cieco (la storia di Gurrumul)», sono il biglietto da visita di un fenomeno della musica contemporanea, di un disco che scuote. Malgrado queste frasi siano fra le pochissime parti in inglese – e dunque comprensibili – di un album per lo più chitarra e voce, cantato in tre dialetti aborigeni. Perché Geoffrey Gurrumul Yunupingu, trentotto anni, nativo di Elcho Island, nord-est dell’Australia, è un aborigeno. Un aborigeno cieco dalla nascita, che a cinque anni ha imparato a suonare su una tastiera giocattolo e poi ha appreso il canto tra i riti della sua tribù e i gospel dei missionari. Fino ad arrivare, sotto la tutela di Michael Hohnen, più che un discografico un talent-scout, a realizzare il suo primo album, intitolato solo Gurrumul. Nel quale – tutte canzoni sue – Gurrumul canta della propria terra e degli avi, di una natura che se impariamo a viverla può rendere ancora saggi «noi e i nostri figli» (Gäthu Mäwula), di una "madre", nel suo linguaggio il Creatore, che sogna «una nuova stagione del mondo» (Baywara), dei tormenti per un oggi che separa i popoli (Wukun).Canta e conquista i cuori, Gurrumul. Come dicono i critici australiani, ed ascoltando il cd non si può che concordare, «non è come altri artisti aborigeni del passato. Non fa ballare, non fa politica. Ha qualcosa d’altro. Di mistico, di universale». Gurrumul che nulla concede alla "promozione" della musica, ed è ben lontano dal pensare un secondo cd. Gurrumul che non parla fuori dalle canzoni, come dice Hohnen: «Non capisce neppure perché lo vogliate, esprime in musica chi è». Gurrumul che segue una vocazione personale, come dice sua zia Dorothy: «Ha scelto la natura, l’ha imparata. E da lì costruisce il suo mondo». Per Gurrumul conta rispettare il compito che sente di aver ricevuto dalla sua gente e dalla sua terra: «Nella tribù – ricorda Hohnen – il suo ruolo è cantare le cose che contano». Anche se ha un peso, la sola mezza frase che gli si strappa: «Tutti si commuovono ascoltandomi? Sono felice. Vuol dire che non c’è differenza tra aborigeni e non aborigeni, tra bianchi e neri». Tutti si commuovono, già. Perché da quando Hohnen ha scoperto Gurrumul e, in un lavoro rispettoso durato ben dieci anni, gli ha lasciato maturare materiale per un cd, i risultati sono stati i seguenti: Elton John l’ha voluto ad aprirgli uno show; le radio britanniche lo trasmettono di continuo; si è esibito nei principali teatri australiani (e pure in Olanda); ha venduto, nella sola Australia dove è il più scaricato da iTunes, centomila copie di un cd che di tiratura ne aveva previste cinquemila. E siccome, fra valori e tradizioni, Gurrumul lancia pure messaggi, il governo australiano dopo il suo successo ha dovuto riconsiderare la questione aborigena. Il tutto con un cd in dialetti locali, chitarra e voce, che sa commuovere, malgrado qualche critico abbia snobbato la sua arte essenziale definendola «anti-sound», anti-musica. Eppure, testimonia Hohnen, «chi lo ascolta mi dice che fa leggere dentro come se lanciasse appelli all’anima. È più di un artista». E forse è davvero anti-musica: perché parla al cuore, come il pop non sa più fare.