Il caso. Il vescovo che si scoprì poeta nel gulag
Il memoriale costruito all’interno del carcere di Sighet dove fu rinchiuso anche Ioan Ploscaru
Si può fare poesia dal gulag? L’affermazione netta di Theodor Adorno («nessuna poesia è più possibile dopo Auschwitz») è stata smentita da molte opere di letteratura che sono rimaste negli annali della cultura (Primo Levi, Etty Hillesum, Dietrich Bonhoeffer, Aleksandr Solženicyn per citare qualche nome). Dal mondo orientale ora giunge per la prima volta in lingua italiana un’altra voce, certo non lirica né elevata come i precedenti citati, ma che conferma come l’anelito di infinito che la letteratura evoca riesce anche a superare e trascendere le disumane condizioni di un sistema concentrazionario come fu il socialismo reale. Tanto più in una delle sue versioni più crudeli: la persecuzione anticristiana (anticattolica per la precisione) in Romania.
Ne è un’attestazione un piccolo libro di poesia di Ioan Ploscaru, Le sbarre, le mie croci. Poesie dal gulag romeno (1951-1964) curato da Marco Dalla Torre e da Lorenzo Gobbi per le Edizioni Feeria (pagine 96, euro 12,00). Un documento prezioso e importante sulla vicenda – già raccontata tempo fa su queste pagine alcuni anni fa – di monsignor Ploscaru (1911-1998), vescovo greco-cattolico di Lugoj, in Romania: nel 1949 accettò l’ordinazione episcopale quando ormai il buio della persecuzione comunista si effondeva sul Paese; il giorno dopo la sua consacrazione, infatti, la Chiesa cattolica venne messa fuori legge. La sua storia è raccontata nel denso Catene e terrore (Edb), un’autobiografia dal sapore epico. Ora invece quella vicenda di eroismo – sei anni di carcere duro a Sighet, di nuovo incarcerato nel 1956 e condannato a 15 anni di prigioni, amnistiato nel 1964 ma comunque sotto tutela fino al 1989 – viene resa disponibile al lettore nella forma poetica dei testi che Ploscaru compose mentalmente durante gli anni di carcere duro e poi messe nero su bianco una volta ritrovata la (semi) libertà. Un modo di pensare, quello di comporre poesia, che ha contribuito a salvare dalla disumanità Ioan Ploscaru. Che così rievoca come nacquero in lui queste composizioni poetiche: «Una mattina, dopo che ebbi finito di recitare l’intero rosario, cercai di meditare la Sacra Scrittura: una meditazione già profonda del solito. Contemplando quegli eventi, mi resi conto che, dalla fantasia stanca ed esausta per la fame, era germogliato un verso, poi un altro. In quella cella umida e triste, nulla riusciva a generare un’emozione estetica, nulla poteva dare un’ispirazione poetica, eppure…». Questo “eppure” sono le pagine che ora si possono leggere. Che ha rimandi letterari ben precisi: «Quando Milton scrisse il Paradiso /, anche cieco ha composto le sue rime, / e poté scrivere ciò che aveva in cuore: / ma per noi, in carcere, era un crimine. / Il ritmo non erano i trochei, / ma le catene, le chiave e i chiavistelli».
Nelle pagine di Ploscaru ci sono riflessioni amare e tragiche sull’identità comunista e la vocazione liberticida del regime: parlando delle sbarre, simbolo di questa stretta, ecco cosa scrive il poeta imprigionato: «Proiettate nell’immensità / vogliono incarcerare perfino le stelle: / poiché hanno invaso il nostro sole, / né terra né confini riescono a fuggirle». Il comunismo dittatoriale viene visto poeticamente come esperienza anti-umana per eccellenza: «La storia del mondo ci è tenuta nascosta / dai loro padroni, rossi di crimini, che le vite divorano con le sbarre a poco a poco, / perché nessuno, via da qui, sappia nulla». La riflessione poetica sulla cattiveria di chi crede in falce e martello fa scrivere parole dal sapore quasi apocalittico: «Dimmi, firmamento lontano, / il solo a non essere imprigionato, / tu che hai visto i millenni, hai mai avuto nemici come questi?». C’è anche spazio, nella penna del vescovo imprigionato, per una riflessione sul carattere scientista dell’ideologia socialista, quando fa dire ai comunisti: «Noi l’infinito lo esaminiamo al cannocchiale / il miracolo lo analizziamo in provetta, / perché noi non viviamo più al tempo di Pilato: / un morto risorto non ce lo facciamo scappare». Le poesie di Ploscaru, in filigrana, molto raccontano della vita del gulag. Ad esempio, lo stupore di vedersi un fiocco di neve entrare in cella: «È notte, fiocchi di neve scendono lievemente … / Sono, Signore, lettere Tue: / messaggi di pace!». Oppure descrivono la quotidianità del carcere: «Sussurrano un ordine, / una lampada si spegne… / e i passi incatenati si perdono lontano… / sul paese è notte, / sulla prigione sta nevicando ». Il pranzo, in carcere, è «un tozzo di pane gettato tra le ingiurie». I prigionieri sono chiamati solo con un numero: «Chiamaci con il nostro numero, perché un nome non ce l’abbiamo più, / stritolati nell’acciaio che nulla può dischiudere».
C’è spazio anche, cristianamente, per il perdono dei propri aguzzini: «Quando i vili ci fanno del male, / quando ci assassinano, / noi li perdoniamo, Signore, / perché lo fanno per il loro pane / e mostrano gemendo i loro figli». Naturalmente la poesia di un prigioniero trascolora spesso nella preghiera. Come quando monsignor Ioan scrive: «Ti chiedo di poter soffrire, / che il mio cuore le consumi, queste sbarre, / fino a quando Tu dal ferro faccia nascere / paesi, rose, gigli e viole ancora». Una preghiera che è anche attestazione di fede in un frangente così drammatico: «I nemici, Signore, non hanno ferro abbastanza, / le loro catene sono troppo poche / per uccidere il nostro desiderio di cielo e rinchiuderci al sicuro dal Tuo amore». Il prigioniero riesce a vedere perfino nella propria condizione la possibilità di incontrare Cristo: «Dicono che a Betlemme / il Dio di Bambino / nasce su povera paglia, / e a coloro che gemono / in catene, in esilio / manda baci di pace». La fede cristallina di un martire dei nostri tempi rifulge lampante quando il credere diventa un grido che sa di Golgota: «Quando, allo stremo del dolore, Ti gridavo: / Ascoltami, Signore, dammi almeno un solo segno! / sotto la volta vuota risuonava solo l’eco della mia voce, / solo la pietra mi rispondeva. Tu, Signore, tacevi!». Ma anche, al contempo, diventa nuda affezione a Dio: «Non ti ho chiesto una vita felice, / né beni, né oneri vanitosi, / ma la speranza di essere amato da Te / al di qua e al di là della morte».