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Libro e mostra. Guido Harari: «Da cinquant’anni fotografo il rock»

Angela Calvini mercoledì 9 agosto 2023

Il fotografo Guido Harari

Guido Harari, Patti Smith a Villa Arconati (1996)Guido Harari, Vasco Rossi (1990) Il fotografo Guido Harari©Guido Harari

Lou Reed, David Bowie, Peter Gabriel, Giorgio Gaber, Fabrizio De André e Vasco Rossi ti guardano dritto negli occhi e ti raccontano un po’ di sé. Un caleidoscopio di ritratti nitidi e iconici da far girare la testa agli appassionati di musica (e non solo) le 300 fotografie esposte nell’imperdibile mostra Guido Harari. Incontri. 50 anni di fotografie e racconti che celebra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara sino al primo ottobre la carriera del grande fotografo e giornalista musicale italiano. Organizzata da Ferrara Arte e il Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara con Rjma Progetti culturali e Wall of Sound Gallery (la galleria di Harari con sede ad Alba) la mostra girerà poi l’Italia comprese Milano e Roma ed è diventata un libro Guido Harari. Remain in light. 50 anni di fotografie e racconti (Rizzoli Lizard, pagine 432, euro 59,00). Cognome israelita di origine siriana ereditato dal nonno, nato nel 1952 al Cairo da famiglia italiana fuggita a Milano dopo la crisi di Suez, Harari è colui che ha “inventato” in Italia negli anni Settanta e Ottanta il mestiere del fotografo da palco, per poi immortalare, in ritratti che hanno fatto epoca, le più grande star del rock e del pop, sino ai più importanti registi, scrittori, fotografi e personalità italiane e mondiali da Madre Teresa a Liliana Segre e Gianni Agnelli.

Guido Harari come scopre la fotografia legata alla musica?

La passione per la musica è nata da bambino attraverso il rock and roll arrivato in Italia con Elvis Presley, ma anche con Gaber e Celentano. La musica degli anni Sessanta, quando esplosero i gruppi, è stata la nostra scuola, il nostro web era il tam tam. La musica contemporanea, la pop art, i poeti francesi maledetti, la beat generation arrivava tutto attraverso la musica. Ogni artista come Hendrix, Zappa, i Doors e i Led Zeppelin, era un pioniere che riformulava influenze elaborando dei linguaggi particolari. Noi ragazzi non avevamo la possibilità di vedere questi gruppi in tv o sul web, solo in qualche rara rivistina che arrivava dall’Inghilterra o sulle copertine dei dischi. Il Big Bang è stato quando ho capito che la fotografia, che amavo molto, era il passepartout per saltare dentro al palco.

Guido Harari, Vasco Rossi (1990) - ©Guido Harari

Il primo contatto col mondo del rock quando è stato?

Attraverso il pretesto di un’intervista che a dodici anni ho proposto ai The Rokes di Sel Shapiro. Ricordo che lui mi aveva squadrato e poi pietosamente aveva detto “Va bene”. Allora si può fare, pensai. Due anni dopo ho inventato un’altra intervista per il giornaletto del Liceo Manzoni a Omar Sharif, fresco del successo del Dottor Živago. Le prime foto invece sono state quelle ad Alan Sorrenti quando pubblicò il primo disco Aria. Sono totalmente autodidatta, avrei fatto volentieri l’assistente, ma in Italia non c’erano fotografi con quel tipo di competenza come gli americani, penso ad Annie Leibovitz, ma solo fotografi di moda o di cinema: io mi sono inventato questo lavoro per passione. Ma allora il rapporto con gli artisti era più semplice e diretto.

I suoi ritratti di star della musica hanno segnato l’immaginario del pubblico.

Non c’è mai stata una finalità estetica, le foto sono il diario dei miei incontri che spesso mi sono cercato al di là delle commissioni dei giornali o delle case discografiche. La mostra ha il valore di riattivare una parte della propria storia, un percorso culturale e umano, i sogni che abbiamo avuto. Sono orgoglioso di avere scelto per la mostra personaggi in vara misura ignorati dalla fotografia, registi come Marco Ferreri e Francesco Rosi. E poi don Gallo, Liliana Segre, i fratelli Citti o anche artisti come Pistoletto o Carol Rama. Sono fotografati come le rockstar, Agnelli o Salgado come Lou Reed o Mick Jagger.

Con quali artisti stranieri ha avuto maggiori collaborazioni?

Con Peter Gabriel sin dai primi anni Ottanta, con Kate Bush che mi presentò Lidsay Kemp, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Patti Smith. Sono molto legato al ritratto affettuoso che feci a Lou Reed e Laurie Anderson abbracciati che lei decise di far pubblicare il giorno della morte del marito. La chiave è stata essermi avvicinato ai grandi artisti mostrandomi interessato non alla loro leggenda, ma al loro presente e al futuro per cui l’artista sta lottando. Spesso sono foto improvvisate sul momento e così si produce uno sguardo diverso nell’immaginario dell’artista.

Guido Harari, Patti Smith a Villa Arconati (1996) - ©Guido Harari

Lei ha avuto un rapporto privilegiato per vent’anni con Fabrizio De André.

Nel 1978 seguii il mitico tour di De André con la Pfm, diventanno amici: nei nostri incontri privilegiavamo la chiacchierata, la fotografia era un corollario. In mostra c’è una foto dove Fabrizio si fa tagliare i capelli da Dori Ghezzi, non si è mai visto. Come Fabrizio che dorme per terra accanto a un termosifone in un palasport.

Gli altri italiani?

Con Baglioni è nata una simpatia enorme nell’85 quando affrontò la prima grande megatournée La vita è adesso: lui ha mostrato tutta l’autoironia che è venuta fuori anni dopo. In mostra c’è una foto di Dalla in piazza Maggiore a Bologna circondato da piccioni in volo. L’idea fu sua: «Aspettiamo i piccioni - mi disse - io poi pesto i piedi». Ennio Morricone invece aveva accettato di farsi fotografare, ma non ne aveva voglia e mi disse. «Ho un’idea: mi nascondo dietro la porta e faccio fluttuare gli occhiali». Fu un momento di grande complicità. E poi indimenticabile è la foto in cui Dario Fo, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci saltano insieme ridendo nel retropalco del concerto di Jannacci per i suoi trent’anni di carriera al Castello Sforzesco. Un’esplosione di gioia, una foto sgangherata, ma una di quelle a cui tengo di più.

E la foto più difficile?

Quella ad Alda Merini. Andai a trovarla nella sua casa sui Navigli: trovai dei locali intasati di oggetti, con scritte dappertutto, per terra sui muri. “E come riesco a sintetizzare tutto questo?” mi chiesi. Era il caos del manicomio che lei aveva ricreato per vivere. Lei andò per una telefonata in camera da letto, la vidi riflessa in una specchiera su cui stavano scritti col rossetto dei numeri di telefono e scattai. Fu un’ottima sintesi.