Il 19 marzo 1980 – giorno di San Giuseppe e Festa del papà – un uomo giusto viene assassinato da un gruppo di terroristi in un corridoio dell’Università Statale di Milano. Si chiama Guido Galli e non ha ancora 48 anni: è il padre affettuoso di cinque figli, è un fine giurista e soprattutto è il magistrato che ha appena concluso una maxi-inchiesta sulle attività criminose delle Formazioni Comuniste Combattenti e di Prima Linea, fra le più sanguinarie organizzazioni del terrorismo rosso di quegli anni. Al momento dell’omicidio il giudice Galli sta andando a fare lezione di diritto nell’aula 309 dell’Università. Poco distante, nello stesso edificio, la maggiore delle sue figlie, Alessandra, frequenta il primo anno di Giurisprudenza: sente il trambusto seguito agli spari, corre al secondo piano, vede il corpo di suo padre riverso a terra, in corridoio. A sparargli è stato appunto un "nucleo di fuoco" di Prima Linea, che rivendicherà l’attentato con una telefonata all’agenzia Ansa motivandolo in questo modo: «Oggi Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 SPL il giudice Galli che appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’Ufficio Istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente…». Amaro paradosso: i terroristi riconoscono che Guido Galli è stato ucciso proprio perché era un uomo che faceva con coscienza il proprio mestiere per la collettività. Inizia così, dalla cronaca di quel tragico giorno, l’ottimo libro del giornalista e storico Renzo Agasso,
Aula 309, edito da Sironi (pp. 208, euro 16), che non è solo una biografia del giudice Galli ma anche una minuziosa analisi del clima politico degli «anni di piombo» e della cultura di morte propagata dal terrorismo, sia rosso sia nero. In due decenni, ricorda Agasso, caddero uccise 429 persone, altre 2.000 furono ferite e si verificarono quasi 15.000 azioni di violenza politica. La vita (altrui) come elemento inessenziale e la violenza come levatrice della Storia: a questa visione del mondo molti, in quegli anni, sentono di dover reagire. Lo fa in modo esemplare la famiglia del giudice Galli. La moglie Bianca e le due figlie maggiori, Alessandra e Carla (oggi entrambe magistrati come il padre) decidono di rispondere all’agghiacciante comunicato di Prima Linea con un proprio comunicato: «A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre. Abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito…Capiamo solo che il 19 marzo avete fatto di Guido un eroe e lui non avrebbe mai voluto esserlo in alcun modo: voleva solo continuare a lavorare nell’anonimato, umilmente e onestamente come sempre ha fatto. Avete semplicemente annientato il suo corpo, ma non riuscirete mai a distruggere quello che lui ormai ha dato per il lavoro, la famiglia e la società. La luce del suo spirito brillerà sempre, annientando le tenebre nelle quali vi dibattete». Che uomo era dunque Guido Galli e quale eredità morale ha lasciato a chi gli è stato accanto? Il libro di Agasso risponde a queste domande raccogliendo una coralità di voci – colleghi magistrati, amici e famigliari – da cui emerge la comune percezione di un uomo profondamente cristiano, legatissimo alla famiglia, tenace nel lavoro giudiziario, schivo sul piano pubblico (non concede interviste ai giornalisti) e dotato di un non comune coraggio personale: si rende conto dei rischi che corre durante l’inchiesta su Prima Linea ma non richiede mai una scorta armata (che negligentemente non gli fu mai assegnata). Un uomo, infine, fiero delle proprie radici bergamasche e innamorato delle "sue" montagne. Così, nel libro di Agasso, lo ricorda don Carlo Mazza, parroco di Piazzolo in Val Brembana: «Era l’esempio alto della parte più elevata della nostra cultura bergamasca e dei suoi valori: esserci senza farsi vedere, lavorando per il bene comune. Credente in una forma dimessa, umile, schiva, però molto solida. Guido Galli era molto amato, era un uomo amabile ed è stato corrisposto. Era uno di quegli uomini speciali che ogni tanto il Signore ci dona e poi ci porta via in fretta, come sacrificati. È un martire. Sapeva i rischi che correva tuttavia ha avuto fino in fondo la caparbietà del dovere, civile e istituzionale. Bisognerebbe farsi aiutare a capire la verità delle cose dall’esempio di Guido Galli e degli altri come lui». Negli anni successivi all’omicidio del giudice è la fede la risorsa di Bianca Galli, che sottolinea, fra gli altri, il grande aiuto ricevuto da padre Adolfo Bachelet, gesuita fratello di Vittorio Bachelet, magistrato ucciso dalle Brigate Rosse un mese prima di Galli. Ma la signora Bianca – così come la figlia Alessandra – ricorda anche la difficoltà del perdono, la solitudine dei parenti delle vittime del terrorismo di fronte alle Istituzioni e il fastidio per la sovraesposizione mediatica di tanti ex terroristi dai quali non è mai giunta una richiesta di perdono.Oggi, scontata la pena, gli assassini del giudice Galli sono liberi e uno di loro ha scritto vari libri, uno dei quali dedicato ai figli dei terroristi perché abbiano «la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto». Una sorprendente capacità di autoassoluzione. Di fronte alla quale preferiamo ricordare la dedica che oggi si trova sulla porta dell’aula 309 dell’Università Statale di Milano: «Il 19 marzo 1980 Guido Galli, magistrato e docente, fu qui assassinato dai nemici della libertà. La sua lezione continua, più ferma, più alta».