Intervista. Guccini: «Scrivo gialli da 20 anni. E torno a pubblicare un disco»
Francesco Guccini (Ansa)
«Marco Gherardini, detto Poiana, 32 anni, per ora ispettore della forestale... Adùmas, un antico bracconiere che conosce e ama la montagna e il bosco che, fra le altre cose, gli danno da vivere». Questi sono alcuni dei tanti personaggi di Tempo da elfi. Romanzo di boschi, lupi e altri misteri (Giunti. Pagine 320. Euro 18,00) scritto a quattro mani dall’ormai premiata ditta Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli. Il cantautore di Pàvana (Pistoia) e lo scrittore - il giallista, “papà” del sergente Sarti Antonio - di Monteombraro (Modena), festeggiano vent’anni dalla pubblicazione della loro prima prova condivisa, Macaronì. Romanzo di santi e delinquenti (Mondadori, 1997). Affinità elettive, fine artigianato narrativo che nel tempo è diventata amicizia, voglia di continuare a scandagliare il loro universo bucolico, facendolo da cantori unici dell’Appennino toscoemiliano.
L’ex ragazzo della bolognese via Paolo Fabbri 43, il “poeta” di Pàvana, «accezione che non mi turba, perché spesso una canzone può avere un testo degno di una poesia», l’anno prossimo festeggia i cinquant’anni dalla sua prima esibizione in pubblico. E fu un palco davvero speciale per quel debutto, la Cittadella di Assisi. «Già, era il ’68 e mi invitarono ad Assisi per un recital. Avevo un repertorio di appena quattro canzoni che poi replicai poco dopo a Loppiano in un miniconcerto per i focolarini». Spiritualità laica dell’autore della sempiterna e dibattuta Dio è morto che, giova ricordarlo, «i primi a capirla fino in fondo furono quelli della Radio Vaticana che la trasmisero». Bruno Salvarani sulle pagine di “Vita e pensiero” annotava che papa Paolo VI giudicò il brano gucciniano come «un lodevole esempio di esortazione alla pace e al ritorno a sani e giusti principi morali».
Canzoni nate e cresciute, in popolarità, nel cuore di una Bologna sessantottina e poi capitale dell’altrettanto caldo Movimento del ’77: «Quando oltre ai musicisti si mischiavano a noi teatranti, disegnatori fantastici e amici come Bonvi e il geniale Andrea Pazienza». Ricorda Guccini tornando con la memoria nella fumosa e goliardica atmosfera dell’Osteria delle Dame, a due passi da quella Osteria dei Poeti, «perché di proprietà della famiglia Poeti» che frequentava Giosuè Carducci. «Quando ripenso a certi momenti trascorsi a tirar mattino alle Dame, allora mi ricordo di essere stato giovane. Presto uscirà fuori qualcosa di quelle notti... un disco che è una registrazione di una serata del 1970».
I gucciniani sono già avvisati, sta per arrivare una perla discografica ripescata da quel mare in piena creativa che era l’Osteria delle Dame. «Quel posto lo fondai assieme al domenicano padre Michele Casali. Era figlio di un impresario teatrale e di un soprano, insomma padre Casali era uno che sapeva di spettacolo. Ogni tanto confessava qualcuno, ma con lui non parlavo mai di religione. Si cantava e si faceva cabaret». Si intonava in coro Auschwitz «che ieri come oggi continua ad avere come “sponsor” tutti gli imbecilli razzisti sparsi per il mondo. Ad Auschwitz poi ci sono andato, con l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, e cadendo mi sono rotto anche una spalla... Ma aver visto di persona quel luogo di morte e atrocità è stata un’emozione, scorticante...».
Si emoziona sempre Guccini quando passeggia ai margini del fiume: «L’hanno abbandonato ma è bello ascoltare il rumore dell’acqua e accorgersi che i castagni sono cresciuti così tanto in tutto questo tempo...». Il tempo si è fermato al piccolo cimitero di Vignale, la sua spoon river, «luogo sul quale sto scrivendo una cosa. Ma non è una canzone, magari un’altra storia da raccontare». Le canzoni, Guccini in pubblico non le canta più, ma dall’alto dei suoi 77 anni continua a scriverle per sé, «su fogli di carta con una penna o una matita. I gialli con Macchiavelli invece nascono al computer. No, non sono uno schiavo della tecnologia, sono fermo all’on/off – sorride – . Mai avuto il cellulare e non ho mai preso la patente di guida. Ma ho vissuto bene lo stesso e dopo essere stato un lettore robusto alla fine degli anni ’80 mi sono messo anche a pubblicare libri».
Mentre ricorda i suoi “scrittori guida” «tra gli italiani Gadda e per la letteratura straniera dico Borges», alla sua porta bussa Loriano Macchiavelli. Classe 1934, il decano dei giallisti italiani arriva a Pàvana dopo quaranta minuti d’auto, dal suo rifugio del “Termine”. La sua narrativa di lungo corso è frutto dell’apprendistato fatto «con gli americani, Raymond Chandler, Dashiell Hammett e poi i giallisti francesi, Simenon in testa». Macchiavelli ha cominciato come autore teatrale, e alla metà degli anni ’70 quando esplose il fenomeno cantautoriale di Guccini, iniziò la saga in giallo di Sarti Antonio.
«Io non frequentavo l’Osteria delle Dame. Conoscevo la musica di Guccini, mi piaceva certo. La ascolto ancora oggi, ho tutti i suoi dischi in vinile, anche gli ultimi dopo l’avvento del cd: li metto su e li ascolto spesso dal mio vecchio giradischi...». Colonna sonora di una lunga storia di narrazione. «Come abbiamo iniziato a scrivere assieme? Dopo esserci ritrovati a un festival del giallo, a Viareggio, parlammo della possibilità di scrivere un romanzo a quattro mani. Cosa che nessuno dei due aveva fatto prima di allora. La molla comunque è scattata dopo un concerto che Francesco tenne con Debora Kooperman dalle mie parti». E così, da allora, ciclicamente, come il passaggio delle stagioni sull’Appennino, affiorano idee, immagini e spunti che si spediscono, come messaggi in bottiglia. E il vetro riflettente è lo schermo dei rispettivi pc. «Io mando e ricevo le email, Francesco invece no, ma ci pensa sua moglie Raffaella a fare da intermediario. Del resto quando sei in mezzo al bosco ti accorgi che la tecnologia non serve più: il segnale non arriva e, volente o nolente, torni a una vita primordiale».
In questo habitat naturale fantastico, per elfi e creature silvestri, sono nati tutti i loro romanzi. «Il sentimento che ci accomuna fin dall’inizio è il raccontare la vita delle nostre montagne: prima, durante e dopo la guerra. Ora con Tempo da elfi abbiamo dato una fotografia di quello che è l’Appennino e la sua gente oggi». Anche Macchiavelli come il suo sodale Guccini crede negli elfi. «Ma non sono mica gli elfi della tradizione celtica. I nostri elfi, quelli di Pàvana in particolare, sono cristiani in carne ed ossa. Gente che è rimasta o che è tornata a ripopolare queste terre. Sono spiriti, buoni e cattivi come un po’ ovunque in questo nostro strano e misterioso Paese, che però hanno mantenuto un contatto diretto con la natura e, come nel romanzo, hanno appena assistito alla fine della vecchia Forestale, sostituita dall’arrivo dei Carabinieri».
Il giallo si nutre dei fitti misteri di queste montagne incantate, dove i giovani fanno fatica a restare, «mancano le imprese e i posti di lavoro diventano chimere », dice Macchiavelli. Però il tempo scorre più lento che in città e forse c’è chi ancora coltiva la lettura, specie se si tratta dei gialli del genius loci. «A dire la verità, alle presentazioni dei nostri libri la maggior parte del pubblico è composto da donne. E questo, come ci dicono gli editori, dipende dal fatto che le donne leggono di più e sono più attente ai titoli quando entrano in libreria». Le lettrici di Tempo da elfi ora si appassioneranno a Elena degli Stabbi che fa il bagno nuda, alla tedesca Helga o magari al magistrato Michela Fassinori e la Florissa che ha vissuto a lungo con gli elfi. «Sono figure di fantasia, ma molte esistono davvero, vivono e lavorano a Pàvana – spiega Guccini – a cominciare da Adùmas che il padre l’ha chiamato così perché si vede che gli piaceva leggere i romanzi di Alexandre Dumas».
Tramonta il sole su Pàvana e per Loriano è tempo di rientro. Francesco lo saluta e riclicca sull’off del computer, e un altro giorno è volato via. Anche gli elfi fanno ritorno alle loro “tane” e nel silenzio della sera li si sente cantare, gli Gli amici di Guccini: «Se quando moriremo, ma la cosa è insicura / avremo un paradiso su misura / in tutto somigliante al solito locale / ma il bere non si paga e non fa male...».