La questione antropologica si è posta al centro del pensiero del nostro tempo. Ciò ha delle ragioni molto profonde. Se cerchiamo di cogliere il carattere peculiare del pensiero compreso tra il diciottesimo secolo e l’inizio del ventesimo, esso ci appare dominato da due strutture: quella meccanicistica delle scienze della natura e quella umanistica delle scienze dello spirito. Pur nella loro diversità di fondo, le due modalità di pensiero avevano un elemento comune: erano sicure di se stesse e convinte di conoscere profondamente la realtà del mondo e dell’uomo. Naturalmente ciò non era del tutto vero. Ovunque, sia dietro le affermazioni teoriche che dietro il comportamento pratico, era all’azione lo scetticismo. Tutti i pensieri e le prese di posizione minacciavano prima o poi di dissolversi nel relativismo. Eppure si ammetteva, per consenso generale, che esistesse un’immagine certa dell’esistente, nella quale anche l’uomo aveva il suo posto. Nella prospettiva delle scienze naturali l’uomo era una parte della natura; una parte altamente differenziata, certo, ma pur sempre natura. Che cosa fosse la natura sembrava fondamentalmente chiaro, per quanto i singoli problemi fossero ben lungi dall’essere esauriti. La natura era, appunto, l’elemento naturale, l’ovvio punto di partenza per chiarire anche il problema dell’uomo. Anche la prospettiva umanistica, delle scienze dello spirito, prendeva le mosse da una sfera il cui senso e il cui valore apparivano evidenti, vale a dire la cultura. E anche qui l’uomo era determinato univocamente: egli era il prodotto della cultura, la creava e al tempo stesso ne veniva plasmato [...]. Vi era poi una terza via del pensiero e del sentimento della vita, la quale, per impiegare un concetto di Nietzsche, potrebbe essere definita eraclitea: mi riferisco qui a certi elementi dello Sturm und Drang e a determinati livelli di lettura dello stesso Goethe. Ma vanno ricordati anche Hölderlin e la modalità di comprensione dell’antichità che è stata introdotta da Creuzer, Welcker e Bachofen e che non era solo una teoria scientifica, ma esprimeva un atteggiamento dell’animo [...]. La concezione meccanicistica delle scienze naturali e quella umanistica delle scienze dello spirito presuppongono che l’esserci sia in qualche modo compiuto. Esse sottolineano in maniera costante il momento della realtà, che considerano come già formata. Per entrambe le concezioni il compito dell’uomo è conoscere questa realtà, trovare la propria reale collocazione all’interno di essa e modificare se stesso in modo da adattarsi al suo ordine. Le possibilità (dell’uomo) sono fondamentalmente note; sconosciuta è solo la misura in cui si potrà realizzarle. L’altro sentimento dell’esserci invece percepisce il mondo e l’uomo come realtà in larga misura potenziali. Se per le prime l’aspetto decisivo è il dato osservabile e studiabile, per il secondo è la possibilità di addentrarsi nell’ignoto. UL na possibilità però che è affidata all’uomo stesso. L’esserci è aperto alla determinazione plastica e creativa. È significativo che a ciò sia connesso un forte impulso pedagogico – e con ciò si intende formativo, non meramente dottrinale. Anzi, il concetto di pedagogico sembra non essere sufficiente a definire tale impulso, al punto che ci si chiede che cosa sia in gioco qui, se non si tratti forse di una nuova specie umana o addirittura di un oltrepassamento dell’uomo nel sovrumano – e con ciò della trasformazione della sostanza stessa dell’uomo [...]. L’uomo si costituisce nella sua indipendenza di fronte a tutto ciò che gli si presenta come una richiesta assoluta, vale a dire di fronte a Dio, alla rivelazione e all’autorità divina; egli lo può fare mettendo in risalto i momenti assoluti che custodisce in sé stesso, i quali si condensano nella pretesa di assolutezza della propria personalità spirituale. Al tempo stesso però emerge anche un’altra tendenza: (quella a) considerare autosufficienti l’essere non assoluto e la finitezza dell’uomo, e a determinarsi soltanto in funzione di tali istanze. Finché l’assoluto è per così dire l’unico schema in grado di fondare l’esigenza di un esserci autosufficiente, l’uomo moderno fa di tutto per costituire se stesso come assoluto. Lo sviluppo di un immediato sentimento dell’esserci e della corrispondente modalità di pensiero conferisce alla finitezza in quanto tale un’intensità del tutto nuova e un’inedita capacità di conferimento di senso. Arriva così un momento in cui la richiesta di assoluto viene a cadere e la finitezza, pur se transitoria e limitata, sembra poter far scaturire da sé la totalità. Questa volontà di finitezza e autosufficienza si congiunge poi con una nuova apertura verso le potenzialità della vita. L’anelito dell’uomo si distoglie dall’assoluto e rivolge tutto il suo fervore al finito – nella convinzione che, se lo si affronta con una passione esclusiva, possano emergere da esso inesauribili possibilità. (La dottrina di Nietzsche dell’eterno ritorno dell’uguale in connessione con la comparsa del superuomo). In questo modo la volontà pedagogica ottiene una nuova intensità; potremmo quasi dire che essa si eleva al rango di demiurgo [...]. Da molto tempo prestiamo orecchio – e non di rado con una grande fiducia nella sua verità – alla dottrina dell’inconoscibilità di Dio. Tale dottrina intende affermare qualcosa di ben diverso dal vecchio motto «Ignoramus et ignorabimus». Quest’ultimo non sapere si sentiva appagato; l’altro invece è pieno di inquietudine. È un non sapere che nasce dalla commozione religiosa; è un’espressione di meraviglia, e in quanto tale è feconda per la conoscenza. Anche dell’inconoscibilità dell’uomo si può parlare in un senso analogo e a partire da un simile vissuto. La pretesa delle scienze naturali di conoscere l’uomo si è rivelata altrettanto fragile di quella dell’umanesimo e delle scienze della cultura. Infinitamente più adeguata dell’apparente sicurezza di queste discipline è invece la meraviglia di un Agostino o di un Pascal, per i quali l’uomo è il problema per eccellenza. Il nucleo più autentico della riproposizione della questione antropologica sta in un sincero non sapere che cosa sia l’uomo, e nella conseguente apertura verso ogni valida risposta. Charlie Chaplin in una celebre foto di scena del film «Tempi moderni» (1936)