Agorà

TECNOLOGIA. Grattacieli: la guerra dei giganti

Leonardo Servadio domenica 20 dicembre 2009
Sembrava che l’era dei grattacieli potesse volgere al termine dopo il disastroso attacco dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers: le torri parevano troppo esposte, troppo facile oggetto di sfregio o di minaccia, troppo facili vittime le migliaia di persone che si trovano assieme in strutture di decine e decine di piani.Ora siamo a un passo dalla data prevista per l’apertura di Burj Dubai (la «torre di Dubai», la cui inaugurazione è annunciata per il 4 gennaio 2010), che con i suoi 818 metri totali (e 162 piani abitati di cui l’ultimo a 636 metri) surclassa tutto quanto l’uomo ha sinora costruito in altezza, al punto che si pone il problema se il termine grattacielo corrisponda ancora all’oggetto. Perché stiamo entrando in un altro genere di costruzione: non semplici edifici, ma vere e proprie città verticali, che più che grattare il cielo, lo abitano. Qualcosa che sinora è stata oggetto di visioni a cavallo tra architettura e fantascienza, quali quella di F.L. Wright che disegnò a metà degli anni ’50 un palazzo alto un miglio – 1600 metri – o la torre di un chilometro, progettata dall’italiano (residente negli States) Paolo Soleri su richiesta di una società giapponese a metà degli anni ’90.L’elaborazione di Soleri sinora è quella più ardita e completa: su un’area dal diametro di 900 metri si innesta una costruzione che contiene tutte le dotazioni di un centro urbano: abitazioni e servizi per decine di migliaia di persone. Ed è l’evoluzione di un precedente studio di città ecologica, chiamata Hyper Building, per 100 mila abitanti su una superficie di un chilometro quadrato (per paragone, a Los Angeles lo stesso numero di persone occupa un’area di 33 chilometri quadrati). Lo studio degli effetti dell’irraggiamento solare, la disposizione di parchi interni a vari livelli, la conformazione degli spazi al fine di dar luogo alle opportune correnti d’aria: tutto è previsto in modo tale da rendere l’edificio-città fortemente «energy saving», quindi molto meno costoso in termini di risorse primarie, rispetto a qualsiasi altro insediamento umano. Poiché per numero la popolazione urbana nel mondo ha da poco superato quella che vive in campagna e tra qualche anno ci si aspetta che il 70 per cento risiederà nelle città, facilmente si comprende come la scelta di verticalizzare le città sia alla lunga un cammino obbligato. In Spagna pochi anni or sono un gruppo di ricercatori (Pioz e Cervera) ha proposto una «torre bionica», capace di servirsi del sole e dei venti per la climatizzazione passiva e dotata di boschi posti su 12 piani disposti entro sua altezza totale 1228 metri. L’apertura di Burj Dubai ribadisce che questi arditi progetti sono possibili. La sua collocazione stessa dimostra come trasformare i deserti in luoghi accoglienti: il Dubai negli ultimi decenni si è impegnato a divenire un’oasi di pace aperta ai commerci e al turismo, la spiaggia dorata del Medio Oriente. E la crisi economica non sembra frenarne per ora l’impegno. Il che peraltro non è una novità: la memoria corre all’Empire State Building che, con i suoi 381 metri di altezza è stato per 42 anni l’edificio più alto del mondo (fino a quando nel ’73 furono erette le Twin Towers). Fu costruito in meno di due anni, tra il 1930 e il ’31, in piena depressione post ’29, al punto che circolava il gioco di parole «Empty State Building», dove «empty» sta per «vuoto», ma rimane tuttora il simbolo di quanto New York è stata per il mondo nel corso del XX secolo: il paradigma della città efficiente e ricca di imprenditorialità.Pur non contenendo le caratteristiche «arcologiche» (architettoniche ed ecologiche) della visione di Soleri, Burj Dubai, con la sua mole immensa, muove un piccolo passo in questa direzione. La sua funzione è mista, commerciale, alberghiera, e residenziale; nasce dalla volontà di dare un volto nuovo a questa zona del mondo: non solo luogo di estrazione del petrolio ma ambiente in cui si può vivere bene. E adotta alcune soluzioni innovative; per esempio l’umidità generata al suo interno sarà raccolta e usata per innaffiare i giardini circostanti (in un anno è una quantità di acqua pari a quella contenuta in 20 piscine olimpioniche); la sua struttura a treppiede, rastremata con scarti asimmetrici è studiata per frazionare la vorticosità dei venti e ridurre così le spinte orizzontali che ne derivano e che possono indurre pericolose oscillazioni.Anche il World Financial Center di Shanghai, edificio che ha conteso sinora il record dell’altezza a Taipei 101 (il primo tocca quota 492 meri e ha il numero maggiore di piani abitabili, il secondo sfora quota 500, ma solo col pennone), ha una conformazione (caratterizzata dalla gigantesca asola superiore) in gran parte dettata dallo studio della forza del vento.Quando si parla di strutture di questo genere, il discorso inevitabilmente ricade su un confronto competitivo: al punto che presso il mitico Institute of Technology di Chicago (quello in cui operava Mies van der Rohe) si è costituito un organismo, il Council on tall buildings and urban habitat (Ctbuh), che tiene una classifica delle torri, secondo diverse categorie di misura: la quota (misurata a partire dal piano di ingresso pedonale più basso all’aria aperta) dell’elemento architettonico più elevato, la quota del piano abitato più alto, la quota del punto più alto di qualsiasi elemento sia posto sopra l’edificio, a prescindere dal materiale di costruzione o dalla sua funzione. In questa terza categoria, sino all’avvento di Burj Dubai il primato è stato tenuto dalla Willis Tower di Chicago, per via delle sue antenne radiotelevisive, che sono elementi rimovibili e quindi non propriamente parte dell’architettura. La meticolosità delle misurazioni deriva dal fatto che ormai non sono poche le strutture che nel mondo raggiungono queste altezze, e il loro numero crescerà sempre di più.Basti pensare che solo nella città di Dubai tra un anno si prevede il completamento di un’altra torre, di circa 400 metri per 66 piani, in cui l’attenzione per le fonti rinnovabili sarà particolarmente forte: l’obiettivo è ridurre del 65 per cento i consumo di energia con l’utilizzo delle fonti rinnovabili. Più alte, più ecologiche. Non torneremo sulle palafitte né colonizzeremo gli alberi: con l’esperienza di queste strutture che oggi sono ancora un lusso per pochi, forse un giorno edificheremo le nuove città per una popolazione mondiale che potrà continuare a crescere senza sentirsi un parassita su territori troppo piccoli.