Firenze. Gormley, sculture come esseri alieni
Sarebbe ingenuo pensare che, per il solo fatto di avere una visione critica del potere, della fragilità e paradossalità del potere (che afferma di fare il bene dell’uomo ma per rimanere fedele a se stesso deve anche essere capace di violarne la pretesa di libertà assoluta, oggi peraltro molto rivendicata, almeno come diritto soggettivo dei singoli); ecco, sarebbe ingenuo imputargli una contraddizione soltanto perché, quello stesso artista che critica le strutture del potere, accetta poi di essere nominato Ufficiale dell’Impero Britannico e Accademico Reale. Antony Gormley, uno degli scultori più noti oggi sulla scena internazionale, ha ricevuto queste e altre onoreficenze, e ora espone al Forte del Belvedere di Firenze presentando un centinaio di sculture sotto la scritta Human, il cui presupposto è una «critica dell’edificio iconico», il Forte appunto, monumento di un potere che sorveglia dall’alto i suoi sudditi perché, di fatto, li teme; e siccome li teme cerca di far pesare il proprio imperio dall’alto di una fortezza che, di fatto, non ha mai avuto funzioni difensive e non ha mai sparato una cannonata, salvo quelle rituali che indicano l’ora di mezzogiorno.
Negli anni Settanta, con la mostra di Henry Moore, il Forte si aprì alla scultura, seguirono alcune esposizioni di calibro davvero internazionale. Pochi citano ancora oggi la mostra di Fritz Wotruba del 1975, magari ricordano le donne adipose di Botero, esposte nel 1991, ma quella dello scultore austriaco fu una delle più belle e importanti mai fatte sulla sua opera (che è una delle maggiori nella scultura del Novecento). Molti ricordano quella di Moore, perché lo scultore inglese opera con un linguaggio il cui biomorfismo stabilisce un’immediata sintonia coi nostri sensi sollecitando le corde mnestiche sepolte nei recessi della nostra psiche; Wotruba, che non è meno arcaico e primitivo di Moore, opera con un linguaggio meno immediatamente collegabile a qualcosa di primario, che sorge dalla terra ma ha una forte valenza strutturale; la sua scultura si lega, infatti, a un canone architettonico, ed è bene ricordare che quello stesso canone, in tempi lontanissimi, si fondò proprio sull’antropomorfismo. Wotruba cercava di scomporlo in elementi solidi, quel canone antico, fondato sulla metrica umana, per poi riassemblarlo, con frammenti compatti, quasi cubisti, con la stessa metodica con cui un paleontologo cerca di rimettere insieme uno scheletro riemerso dagli scavi: una vertebra, una tibia, un femore... E il risultato è un totem di umanità riscritta come qualcosa che è, al contempo, eroico e precario, intero e frantumato, che si erge fiero sulle proprie membra, ma ha qualcosa di alieno.
Osservando le sculture di Gormley nate da una analoga scomposizione cubizzante delle diverse aree del corpo, praticata con esattezza grazie alla collaborazione del computer («una grande liberazione» dice l’artista parlando con Arabella Natalini che cura la mostra con Sergio Risaliti, intendendo la possibilità che il mezzo tecnologico gli offre di immaginare quella scomposizione senza dover avere le “seste negli occhi”), si avverte uno iato profondo il cui limite si colloca proprio nell’idea di rendere la sintesi «di un corpo reale, plasmato e scansionato, e poi costruito». E Gormley aggiunge: sono «fossili prodotti industrialmente», nati da una strategia non «emotiva ma scientifica»: «voglio che le figure celebrino le pose del corpo umano e ci invitino a riempirle basandoci sulla nostra esperienza». Insomma, Gormley ci sta dicendo che nell’epoca dove la tecnologia ci ha dato la possibilità di realizzare un’immagine di noi stessi più vera del vero (si ricordi che era un ideale antico, quello per esempio da cui è nata la ritrattistica in cera), la sua opera cerca, usando lo stesso mezzo produttivo che oggi presiede al mondo virtuale, di frammentare le forme del corpo umano in modo tale che tocchi a noi poi ritrovare in noi stessi l’architettura che le ricompone in immagine dell’uomo.
Si può parlare dell’uomo oggi, in un luogo che fu edificato come fortezza ma che non ha mai avuto una vera funzione difensiva, quanto lo scopo di rendere emblematico il controllo che i Medici esercitavano sulla città? Gormley vuole drammatizzare il senso di quelle mura segnate da questa paradossale inattività bellica. Sarebbero, in un certo senso, un simbolo del fallimento dell’Umanesimo, se come tale si intende l’idea di una centralità antropologica nell’universo. Sale invece in primo piano la vulnerabilità dell’uomo, ed è un modo per ricordarci che siamo deboli, pieni di insicurezze, facili al pianto, soverchiati dalla morte, in balia del dolore, ripiegati su noi stessi per il senso di angoscia e di abbandono, ma anche prigionieri delle nostre necessità di sopravvivenza, dunque inclini a quella atavica barbarie che riaffiora puntualmente nell’ora del bisogno.
Non sarò io a negare che il Forte, in sé, sia stato un emblema del potere che incombe sulla vita dei propri sudditi anche quando vuole apparire gentile, amante della bellezza, favorevole al gioco e all’incontro fra le persone. Come si dice oggi, il potere che vuole apparire friendly, amico. «Vorrei che lo spettatore mentre cammina su questa collina, trasformata in opera d’arte, ne avvertisse il potere e la paranoia», dice Gormley.
Sembra di vedere, in quelle sagome (difficile chiamarle uomini o statue dalla sostanza umana), plasmate nel ferro, dipinte di nero, tanti manichini che interpretano una tragedia silenziosa, come la «classe morta» di Kantor ma con meno pathos, meno realismo stralunato: la diagonale ascendente di figure che Gormley ha disposto come un cannocchiale che punta sulla città di Firenze, è fatta di figure stranamente simili a quelle che compaiono sui cartelli che illustrano i percorsi ginnici nei parchi, ma si tratta di ginnastica dell’alienzazione, dove ogni posa del corpo, alludendo a una particolare condizione dell’uomo, ha l’esemplarità chiusa di una monade che non riesce a comunicare col mondo.
Forse è proprio la sordità simbolica, l’opacità dell’immagine umana, il dato più scioccante di questa installazione di figure tutte simili e tutte diverse, che interferiscono con la silente dura immobilità architettonica del Forte, che se non fu mai macchina bellica, oggi, diventando luogo deputato per la scultura, riscatta se stesso da quel vincolo che storicamente lo vide nascere come un ideale panottico del potere che tutto controlla.