Agorà

Intervista. ÁGNES HELLER: «Noi, orfani dell’utopia»

ALESSANDRO ZACCURI giovedì 26 maggio 2016
La distopia non è solo il lato oscuro dell’utopia, il suo opposto e rovescio. È un modo radicalmente diverso di immaginare il futuro. E nell’uomo l’immaginazione è molto, a volte è addirittura tutto. Parola di Ágnes Heller, una pensatrice che del fallimento delle utopie novecentesche è stata testimone diretta e che adesso registra con inflessibile intelligenza l’avanzata delle distopie. «Fosche visioni del futuro che non hanno più nulla a che vedere con la categoria del progresso – spiega – e si limitano a fornire un’immagine ingigantita del nostro presente. Pensi a Sottomissione di Michel Houellebecq, per esempio». Nata a Budapest nel 1929, dopo essere sopravvissuta alla Shoah Ágnes Heller è stata allieva e collaboratrice di György Lukács, ha attraverso gli entusiasmi e le delusioni del socialismo ungherese, è stata prima emarginata in patria e poi acclamata all’estero, in particolare negli Stati Uniti, dove ha insegnato a lungo. Oggi è nota per le posizioni molto critiche nei confronti del suo Paese d’origine, nel quale è tornata a risiedere per una parte dell’anno. Ha scritto moltissimo (tra i suoi testi capitali ricordiamo Oltre la giustizia, in catalogo dal Mulino) e molto continua a scrivere e pubblicare. Al rapporto fra utopia e distopia è dedicato Il vento e il vortice, realizzato in collaborazione con Riccardo Mazzeo ed edito da Erickson (pagine 152, euro 14,50). A partire da questo saggio si svilupperà l’intervento che Heller e Mazzeo terranno domani alle 21 in piazza Duomo a Vicenza nell’ambito del Festival Biblico. «Il punto centrale è sempre lo stesso – insiste l’autrice –: il XXI secolo non crede più nell’ideale di progresso, immaginare basta considerare i romanzi pubblicati negli ultimi decenni per rendersene conto». L’utopia è un lusso che non possiamo più permetterci? «Dal punto di vista storico l’utopia si manifesta anzitutto come celebrazione di un passato perduto, di un’età dell’oro o giardino dell’Eden al quale si desidera fare ritorno. In seguito subentra un elemento, sempre più evidente, di investimento nel futuro, si afferma la speranza che il mondo sia destinato a migliorare sempre di più. Nel momento in cui questa fiducia nel progresso viene meno, com’è ormai accaduto, l’utopia non è più all’ordine del giorno. Al suo posto subentra la distopia, che però non esprime alcun progetto originale per l’avvenire. In sostanza, è un monito che amplifica alcuni aspetti del presente nel tentativo di metterci in guardia. Scrittori come Ray Bradbury, Margaret Atwood, Kazuo Ishiguro e Cormac McCarthy sembrano dirci: state attenti, questo potrebbe essere il futuro». Quale ruolo gioca il riferimento alla tradizione biblica? «Per rispondere occorre riflettere, almeno per un momento, sulla natura dell’immaginazione, questa straordinaria facoltà mentale che deriva dalla fusione tra ragione ed emozione. Ogni momento della nostra giornata è segnato dalla presenza dell’immaginazione anche dal punto di vista psicologico, ma questa facoltà è addirittura decisiva quando si tratta di innovare: di immaginare, appunto, un futuro che sia diverso dal presente. Questa dimensione creativa dell’immaginazione, caratteristica in particolare dell’arte, è determinante per il formarsi delle utopie e ha trovato espressione in molte pagine della Bibbia. Personalmente trovo molto convincente la tesi dell’egittologo Jan Assmann, che riconosce nel Libro dell’Esodo uno dei capisaldi dell’utopia di ogni tempo. Attraverso la promessa ricevuta da Mosè, il popolo di Israele riesce a concepire la liberazione dalla schiavitù e l’avvento di un mondo completamente nuovo. Si verifica così salto di scala nel percorso immaginativo che avrà conseguenze formidabili per tutta l’umanità ». Questo significa che nell’utopia è sempre presente una componente religiosa? «Non la metterei in questi termini. Anche quando ha assunto un profilo religioso, l’utopia ha sempre conservato una prospettiva secolare. Le attese non si sono mai semplicemente proiettate al di fuori dal mondo sensibile, ma hanno sempre contemplato la possibilità di modificare in concreto la realtà in cui viviamo. Da questo punto di vista c’è una forte continuità fra utopia e distopia, per quanto quest’ulitma finisca per estrapolare e capovolgere gli elementi di critica sociale già presenti nell’utopia stessa. La differenza, in fondo, è abbastanza chiara: l’utopia parte dalle brutture del presente per immaginare un futuro migliore, la distopia ci obbliga a misurarci con un futuro nel quale le bruttura del presente siano portate alle estreme conseguenze». Non c’è, in questo, una similitudine con la manipolazione della paura tipica dei populismi contemporanei? «La paura è uno dei fattori alla base dell’immaginazione utopica e distopica. L’altro è la speranza e forse è su questo fronte che occorrerebbe vigilare di più. La manipolazione della speranza può avere esiti terribili, come ci insegna la vicenda dei totalitarismi. Per restare in ambito italiano, il fascismo ha inizialmente ottenuto consenso diffondendo la speranza di riaffermazione e riscatto nazionale. Per rafforzarsi, però, il regime deve fare ricorso allo strumento della paura, che difficilmente fallisce. Indicare un nemico, interno o esterno, e far crescere il timore nella popolazione. Maggiore è la paura, maggiore è il potere. Questo, a mio avviso, è quello che sta accadendo anche in Ungheria». Oggi le società occidentali sembrano fare affidamento più sui valori individuali che sulle virtù pubbliche: è sufficiente?  «L’etica moderna si basa su una duplice richiesta rivolta a ciascuno di noi: essere una brava persona ed essere un buon cittadino. Due pilastri di uguale importanza, che si sorreggono a vicenda. È del tutto illusorio pensare che, qualora uno dei due crollasse, il nostro mondo potrebbe reggersi ugualmente. Al contrario, la cooperazione tra valori privati e virtù pubbliche è oggi più necessaria che mai, se davvero vogliamo evitare che il futuro assomigli agli incubi della distopia».