INTERVISTA. Globalizzazione, suona l’ora dell’Africa
Il Mali ostaggio dei fondamen-talisti, la Nigeria dei kamikaze nelle chiese, ma anche il Maghreb, dove l’ascesa dei gruppi salafiti - dall’Egitto alla Tunisia alla Libia - sta raffreddando le speranze seguite alle primavere arabe: l’Africa è la nuova frontiera dello scontro di civiltà? Per Catherine Coquery-Vidrovitch, nota africanista professore emerito all’Università Paris-VII, il quadro non è questo. Anzi, «ci sono ben altri fronti su cui il continente, oggi, si sta davvero dimostrando protagonista ». Un esempio? «Mentre tutto il mondo soffre i contraccolpi della crisi economica, l’Africa fa registrare una crescita senza precedenti». La studiosa francese invita a ribaltare la prospettiva. E lo fa, lei per prima, nel suo libro Breve storia dell’Africa, da poco uscito per Il Mulino (pp. 170, euro 14). In cui, ripercorrendo le tappe salienti di un passato antichissimo («gli antenati degli uomini hanno fatto la loro comparsa in Africa parecchi milioni di anni fa», ricorda), fa notare come il continente rappresenti «una straordinaria terra di sintesi» che «non ha mai vissuto, contrariamente a quanto hanno creduto e raccontato gli europei, nell’isolamento». Non c’è da stupirsi, dunque, che tutti i grandi fenomeni di portata globale - in questo caso l’acuirsi di tensioni che strumentalizzano la sensibilità religiosa - si riverberino nelle dinamiche interne all’Africa. Ma le immagini di violenza che ci arrivano dal Sahel o dalla Nigeria non la preoccupano?Naturalmente si tratta di fenomeni gravi, eppure dobbiamo ricordare che l’islam, a sud del Sahara, è in maggioranza molto tollerante. Le forme religiose estremiste sono mino-ritarie, anche se sono quelle che fanno più rumore. In Mali, i jihadisti che stanno seminando il terrore vengono dalla Libia, mentre in vari contesti, in primo luogo la Nigeria, i conflitti in corso hanno ben altre ragioni - terre contese, scontri per le risorse, su una base di povertà e mancanza di prospettive - e non possono affatto essere ridotti a tensioni religiose. Dunque non vede una rinascita dell’islam militante? Non dimentichiamo che il fondamentalismo non è appannaggio dei musulmani, ma, per esempio nella Nigeria meridionale e sulla costa occidentale del conti- nente, interessa anche le sette ultrareligiose cristiane evangeliche e pentecostali. L’estremismo e il ricorso al soprannaturale per giustificare la violenza riguardano musulmani, cristiani e anche animisti: non siamo di fronte a scontri di civiltà, ma a scontri per lo sviluppo. A proposito di sviluppo, lei enfatizza l’attuale boom economico in Africa: quali sono le potenzialità e i limiti di questo fenomeno? Le potenzialità sono enormi. Il continente possiede riserve importanti di tutte le risorse più preziose: diamanti, oro, uranio e soprattutto petrolio, il che la rende una terra strategica, con tutti i vantaggi, e i rischi, del caso. L’Africa, in particolare quella subsahariana, rappresenta l’unica regione che, mentre il resto del mondo è in crisi, continua a fare registrare una rapida crescita del Pil (con il record di sei dei Paesi a sviluppo più rapido degli ultimi dieci anni, ndr). Certo, questi dati dipendono anche dal fatto che il punto di partenza, a livello di sviluppo economico e industriale, era molto basso. Senza contare alcune contraddizioni: in certi Stati resistono élite corrotte e inadeguate che impediscono che i benefici della crescita ricadano sulla maggioranza della popolazione. Si creano così forti diseguaglianze sociali. C’è uno scollamento tra i progressi di una società civile vivace e una democratizzazione lenta. Eppure, negli ultimi anni assistiamo all’ascesa di una nuova, rilevante classe media. Oltre 300 milioni di persone, secondo la Banca africana di sviluppo: qual è il ruolo di questa classe media? Notevole. Si tratta di un processo accelerato negli ultimi vent’anni. Se nel periodo coloniale solo una piccola maggioranza frequentava la scuola, già negli anni Novanta lo scenario si era rivoluzionato, e l’istruzione ha portato con sé un’importante diversificazione e modernizzazione delle attività professionali. Oggi, soprattutto nelle città, esiste una fascia sociale fatta di funzionari statali, insegnanti, imprenditori, operatori dei servizi, che si sono moltiplicati grazie all’arrivo delle grandi società multinazionali, che hanno aperto sul continente le loro filiali e vi hanno riversato i propri capitali. La nuova borghesia africana rappresenta un mercato molto appetibile, in prospettiva il più grande mercato al mondo». Le conseguenze dell’urbanizzazione sono solo economiche? «Non solo. Se è vero che in Africa l’urbanizzazione è stata tardiva, oggi ci sono città che sono passate in dieci anni da qualche migliaio a qualche milione di abitanti. Pensiamo a Libreville, in Gabon, al Sudafrica, al Senegal, o anche a un Paese come il Ruanda, fino a pochi anni fa quasi esclusivamente rurale. A livello continentale, la popolazione delle città è pari o addirittura superiore a quella delle campagne. E le città costituiscono non solo contesti con maggiori opportunità formative, sanitarie e professionali, ma anche i centri della coscienza e dell’attivismo politico. Le classi medie urbane sono sempre meno disposte a supportare i regimi dittatoriali del passato. Che ne pensa dell’esplosione delle nuove tecnologie della comunicazione? È un fenomeno estremamente importante. Oggi, in Africa, praticamente tutti hanno un cellulare, gli internet point si sono moltiplicati: la comunicazione e l’informazione sono chiavi per lo sviluppo e per la crescita della coscienza sociale e politica. Gli intellettuali africani sono sempre più permeabili agli apporti dell’estero, e anche la gente comune ha aperto i propri orizzonti. Abbiamo visto il ruolo dei social network nelle rivoluzioni nordafricane: ebbene, anche a sud del Sahara il cambiamento sta arrivando».