Fotografia. "Civilization": a Forlì la fragilità del mondo contemporaneo
Ola fOtto Becker, Point 660,2,08/2008 67°09’04’’N, 50°01’58’’W, Altitude 360M, Dalla serie Above Zero, 2008 © Olaf Otto Becker
Il giorno in cui uno scrittore piuttosto noto vide al Centre Pompidou di Parigi un turista fotografarsi meticolosamente i piedi perché, evidentemente stanco di riprendere le pareti e il soffitto del museo, aveva deciso di rivolgere la sua residuale capacità di attenzione al parquet, ebbene, quel giorno capì che era ormai carta straccia la frase che Minor White, grande e solitario fotografo di Minneapolis, aveva scritto una volta: «Io, per esercizio, fotografo sempre mentalmente ogni cosa ». Non valeva, perché nel frattempo era saltato l’avverbio, e senza quel 'mentalmente' la frase faceva tutto un altro effetto, scampanellava nell’orecchio come un cattivo segno, quasi come quello che annunci una malattia mentale. Il fatto che oggi il pianeta sia punzecchiato da miliardi di clic, e interamente fasciato da un multistrato di immagini fotografiche lampeggiate da schermi di computer, fa pensare che si è arrivati al capolinea, all’ora in cui la famosa epoca della riproducibilità di massa va in overdose. E così, qua e là, sempre più spesso, da parte di fotografi anche importanti si sente raccomandare astinenza, una specie di ecologia dello scatto e dello sguardo, come ha fatto Joachim Schmidt che tempo fa ha dichiarato che non avrebbe mai più scattato «nessuna nuova fotografia finché non saranno utilizzate fino in fondo quelle già esistenti». Capirai, aspetta e spera.
Intanto, sarà il caso di vedere questa mostra che documenta l’attimo decisivo (secondo il sommo occhio zen di Henri Cartier-Bresson) di una pratica veloce e aderente miracolosamente alla pelle mutevole del mondo. È un’esposizione itinerante che si intitola Civilization ed è allestita ai Musei San Domenico di Forlì (fino all’8 gennaio) e siccome rientra nelle iniziative previste per il 'Festival del Buon vivere' che annualmente si tiene nella città romagnola, l’originale sottotitolo della mostra che era The way we live nowè stato modificato nel più leggiadro Vivere, Sopravvivere, Buon Vivere. Curata da William A. Ewing e Holly Roussell con Justine Chapalay, in collaborazione, per l’edizione italiana, con Walter Guadagnini, Monica Fantini e Fabio Lazzari, la mostra tocca il nostro Paese dopo aver fatto tappa a Seoul, Pechino, Auckland, Melbourne e Marsiglia. Coprodotta dalla Foundation for the Exhibition of photography e dal National Museum of modern and contemporary art of Korea in collaborazione con la Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì, la rassegna presenta oltre 300 scatti di 130 fotografi, provenienti da cinque continenti, che affrontano i temi del presente e del futuro del mondo contemporaneo, sempre più caratterizzato dai fenomeni dell’interconnessione e della globalizzazione.
I curatori, interrogandosi sul concetto di civiltà che ciclicamente ogni epoca e ogni generazione hanno tentato e tentano di definire, danno vita a un’esposizione ampia, una sorta di archivio planetario su abitudini, comportamenti, attività che rappresentano un’iconografia del presente, a partire dagli effetti, talvolta straordinari e a volte drammatici, delle relazioni tra individui, collettività, tra culture del nostro tempo inevitabilmente connesse con quelle e di ieri. Come documenta la sala introduttiva che ci parla del passato col fotografo paesaggista Richard de Tscharner che riprende le Piramidi Nubiane ormai circondate da pali della luce e strade asfaltate, del presente con Thomas Struth che fotografa, per ricordarci le nostre profonde radici, il Pergamonmuseun di Berlino dove è stato ricostruito un edificio monumentale dell’antica Grecia, del futuro con Vincent Fournier le cui foto di centri spaziali uniscono interesse documentario e sogno.
Il percorso espositivo si sviluppa poi attraverso otto sezioni tematiche che approfondiscono gli aspetti più caratterizzanti del vivere contemporaneo e allora ecco le immagini delle grandi metropoli in cui sciami umani assimilabili a pixel di sfumati cromatismi (Cyril Porchet), capaci di contrarsi in spazi di cinque metri quadrati (Benny Lam) oppure di dilatarsi in smisurate baraccopoli che erodono fatalmente l’habitat (Pablo Lopez Luz); brulicanti operai inghiottiti da giganteschi hangar (Edward Burtynsky) contrapposti alle ordinate geometrie di silenti centri di stoccaggio (Alex Maclean, Henrik Spohler) o a spiagge affollate (Massimo Vitali) e avveniristici parchi di divertimento (Reiner Riedler). Quella che ci viene mostrata è una realtà per lo più urbana e in costante mutazione in cui si sostanziano la protervia svettante dei grattacieli in folle competizione con l’orizzontalità del deserto (Philippe Chancel); ora le sagome in preghiera, modulari e inginocchiate di una smisurata moschea (Ahmad Zamroni); ora i pendolari stipati nella metropolitana giapponese (Michael Wolf) con volti compressi su finestrini appannati; ora le barche dei rifugiati dense di corpi sofferenti (Daniel Berehulak, Francesco Zizola). Così che alla fine ciò che sembra prevalere, scorrendo la mostra, è un senso di precarietà e fragilità che segna la nostra civiltà contemporanea, un senso acuito dagli scatti di Alex Majoli sulla pandemia da Covid e di Paolo Pellegrin sulla guerra in Ucraina.
Pablo López Luz, Vista Aerea de la Ciudad de Mexico, XIII. Dalla serie Terrazo, 2006 - © Pablo López Luz