«Quando la carità è un rischio, proprio quello è il momento di fare carità». Il senso dell’ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone , presentato ieri a Venezia fuori concorso, è contenuto tutto in questa frase che ci riporta a uno dei temi chiave del cinema dell’ottantenne regista. Affrontato però questa volta in maniera per certi versi «rivoluzionaria». La carità diventa così la scoperta nell’altro della propria felicità, dell’uomo delle origini. Gesto d’amore quasi estremo, l’unico capace di spalancare davvero le porte del futuro per l’umanità intera. Non a caso nelle note di produzione Olmi inserisce una dichiarazione di Indro Montanelli pubblicata nell’ottobre del 1968 sulla Domenica del Corriere: «L’unica vera grande rivoluzione avvenuta nel nostro mondo occidentale è quella di Cristo, il quale dette all’uomo la consapevolezza del Bene e del Male e quindi il senso del peccato e del rimorso. In confronto a questa tutte le altre rivoluzioni, compresa quella francese e russa, fanno ridere». Tornato dietro la macchina da presa dopo Centochiodi, Olmi ci offre attraverso una messa in scena scarna, rigorosa, ma ricca di simboli, volti, silenzi e parole che pesano come pietre, l’apologo di un vecchio prete, parroco di u- na chiesa dismessa e sull’orlo della demolizione. Quadri e crocefissi sono stati riposti nei bauli, i muri sono stati spogliati con un atto feroce, quasi sacrilego, che lascia un vuoto profondo. Ma quella chiesa devastata, saccheggiata, diventa improvvisamente rifugio per immigrati nordafricani, i miseri e i derelitti, gli ultimi della terra, «capaci di diventare con i loro accampamenti i nuovi ornamenti della Casa di Dio e di dare una nuova sacralità alle pareti nude, alla mancanza di cerimonie liturgiche». Quel momento di sconforto sarà «l’inizio di una resurrezione, di un modo nuovo di vivere la missione sacerdotale, tra fratellanza e coraggio, uomini nuovi e giusti». Interpretato da Michael Lonsdale (protagonista anche di Uomini di Dio), Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich, che affiancano attori non professionisti, il film poggia su un’altra parola chiave, 'diabasi', che indica il pensiero che si fa atto creativo e rimanda alla responsabilità di vivere con gli altri. «Vorrei suggerire ai cattolici, e io sono tra questi – dice il regista –, di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani. Il vero tempio è la comunità umana. Dobbiamo liberarci dagli orpelli, altrimenti siamo maschere, uomini di cartone». A chi gli chiede se con il suo film non rischi di ridurre il cattolicesimo al solo concetto di accoglienza, Olmi risponde: «Ma cos’è più importante dell’accoglienza? La sacralità dei simboli? Il simbolo deve rimandare a una realtà di carne per avere valore. Non è possibile genuflettersi davanti a un Cristo di cartone o di legno se poi non si mostra solidarietà per chi soffre». E sulla scelta di includere nel gruppo di migranti che ritrova asilo nella chiesa anche un terrorista con tanto di cintura esplosiva, spiega: «Il mio non è un film realistico e ogni presenza è simbolica. Il ragazzo decide di accettare l’atto violento come un dovere per non dialogare con l’altro. Ma solo dal confronto e dal dialogo con gli altri possiamo davvero capire chi siamo». Da qui le riflessioni sul modo più profondo di vivere la fede: «La vera fede è quando il peso dei nostri dubbi è superiore a quello delle nostre convinzioni. In tanti momenti difficili ho chiesto a Dio dove fosse, ma la risposta dobbiamo trovarla noi stessi».