Storia del calcio. Gli azzurri del '34, condannati a vincere
Stadio dell’Urbe di Roma, 10 giugno 1934: la Nazionale campione del mondo esulta dopo la finale vinta contro la Cecoslovacchia portando in trionfo il ct Vittorio Pozzo
Novanta, come la paura che serpeggia, quando a seminarla sono i boia dei totalitarismi. Novanta, come i minuti regolamentari di una partita di calcio. E novant’anni fa, in pieno regime fascista, durava così, con qualche raro supplementare, tipo quello contro la Cecoslovacchia che portò l’Italia al suo primo dei 4 trionfi mondiali. Finale di Coppa Rimet, allora il torneo iridato di calcio si chiamava così, in onore del francese Jules Rimet, 10 giugno 1934: davanti a una folla oceanica, 55mila spettatori, allo Stadio Nazionale del Partitsto Fascista , l’attuale Flaminio (scempio italico dell’abbandono del patrimonio storico-architettonico) gli azzurri superarono la nazionale ceca, 2-1, con gol al 95’ (la “zona Cesarini” fu coniata nel 1931) della gloria felsinea Angelo Schiavio. Benito Mussolini convinto che il suo Impero dovesse passare anche dalla fascistizzazione dello sport, volle un solo uomo al comando dell’atletismo olimpico tricolore: l’onorevole Lando Ferretti. Bilaureato in Lettere a Pisa e Pavia, fondatore della squadra di calcio della sua città, Pontedera, giornalista della “Gazzetta dello Sport”, appunto deputato del Partito nazionale fascista, dal 1924 (anno del delitto Matteotti) e nel ‘25 assume anche la carica di presidente del Coni . Insediatosi, a capo della Figc, Ferretti nominò il ras di Bologna, Leandro Arpinati. Quattro anni dopo la Marcia su Roma, il Duce fece commissariare la Figc e i due gerarchi nominarono come Commissario Unico della Nazionale di calcio, Vittorio Pozzo. Salesiano, tenente degli alpini nella guerra del ‘15‘18, il commendatore del Regno italiano Pozzo era l’uomo che, in campo e fuori, incarnava perfettamente i due principi cardine di Mussolini, «ordine e disciplina». Ma il ct, torinese e giornalista de “La Stampa”, era un liberale e mai si affrancò al regime. Al suo “obbedisco” ad Arpinati ad assumere l'incarico di selezionatore, Pozzo fece seguire il laconico: «Accetto molto volentieri, a patto che non mi venga dato un centesimo». Alla vigilia dei prossimi europei di Germania 2024 ricordiamo che novant’anni fa un ct lavorava con la Nazionale solo per amore di patria. Ma il patriottismo azzurro non faceva rima con fascismo. Tra i ragazzi del ’34 che fecero l’impresa, pochi erano i veri fedelissimi, anche se tutti, per la “direttiva Starace”, dovevano essere regolarmente iscritti al Pnf, pena, la mancata convocazione. Fascista della prima ora era Eraldo Monzeglio, difensore tecnico e coriaceo del Bologna, il quale nel tempo libero frequentava Villa Torlonia in qualità di amico dei figli di Mussolini. E visto che il Duce era praticamente negato per il football, pardon il calcio, ogni inglesismo era stato bandito per l’odio verso la «Perfida Albione», Monzeglio lo allenava al gioco del tennis. Un altro fascista dichiarato era il romanista Attilio Ferraris, IV di una dinastia romana di calciatori, che con il portiere della Juventus, Gianpiero Combi, erano i due azzurri “ripescati al bar”. Pozzo scovò Combi dietro al bancone del suo locale torinese meta della creme sabauda all’ora dell’aperitivo e lo convinse a rientrare nel gruppo. Ferraris IV, croce e delizia della Roma, dovette invece strapparlo al tavolo della zecchinetta: il ct lo trovò tra le nebbie fumose di una sala biliardo di Borgo Pio dove ormai stava dissipando gli ultimi guadagni ottenuti con il calcio. Infatti, per volontà di Arpinati, dal ’26 i calciatori di Serie A potevano ricevere emolumenti e un trattamento da professionisti. Il gioco si faceva serio e gli interessi, anche economici fluttuavano, tant’è che nel ‘27 ci fu il primo scandalo del “calcioscommesse” che vide protagonista il terzino della Juventus Gigi Allemandi. Il bianconero venne squalificato per tre anni e fece e il suo ritorno in campo nel 1930 dietro regia amnistia dei Savoia. Un'altra “mela marcia” da far rimaturare nella cesta del Commissario che aveva convocato Allemandi dopo averlo visto all’opera nell’Ambrosiana Inter in cui superate le trenta primavere si era rifatto una nuova rispettabilità. La difesa era in “buoni piedi”, ma restava da costruire il resto della truppa destinata a dare l’assalto a quella Coppa che si giocava in casa. Otto gli stadi designati che andavano dal piccolo Littorio di Trieste (8mila posti), passando per gli impianti già aurei di Torino, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Napoli e il già citato Urbe di Roma. «Vincere e vinceremo!», era il monito gridato anche in mezzo al campo con doveroso saluto fascista rivolto alla tribuna delle autorità. Pozzo a sua volta ,alla vigilia di ogni battaglia, la prima fu contro gli americani e si chiuse con un cappotto, 7-1, caricava i suoi con i racconti della Grande Guerra e insegnandogli La canzone del Piave. Massicci e arrabbiati più degli altri, si presentarono i tre oriundi argentini. Dal ’26 erano state chiuse le frontiere per non far passare più lo straniero, anche nel calcio. Autarchia anche in Serie A, ma per i tre argentini giocarono a favore le origini da italiani veri. A cominciare da “Mumo” Orsi, il vanesio Raimundo della Juventus, il giocatore più pagato al mondo: acquistato dal presidente Edoardo Agnelli con un ingaggio di 100mila lire, villa in collina, Fiat 509 con autista e uno stipendio da 8mila lire al mese. Prendeva assai meno dalla Roma il “Corsaro Nero” Enrique Guaita che a Mondiale concluso se ne scappò in Argentina pur di non rispondere alla chiamata dell’esercito italiano che stava andando a far guerra agli abissini. Lo stesso fece Orsi che di corsa firmò per l’Independiente di Buenos Aires, lì da dove per il Mondiale del ’34 era sbarcato in Italia Luisito Monti. Talento della squadra di papa Francesco, il San Lorenzo de Almagro, non trovando più ingaggi aveva aperto un pastificio e il calcio per Luisito sembrava ormai una parentesi chiusa. Ma Pozzo lo chiamò e la disponibilità di Monti cadde come il cacio sui maccheroni nel piatto sempre più ricco della Nazionale che si andava delineando con un centrocampo in cui spiccava l’altro corsaro, con tanto di bandana in testa, Luigi Bertolini. Compagno nella Juventus del calvo Giovanni Ferrari che incantò persino la penna acuminata dello scrittore e inviato speciale della “Gazzetta del Popolo” Paolo Monelli, il quale osservandolo dall’alto della tribuna scrisse: «La sua pelata splendeva come un faro nell’arena». Ma la stella più luminosa era quella del “Balilla”, Giuseppe Meazza. Per Gianni Brera l’essenza del “Folber”, un predestinato: a 13 anni nella latteria di via Arconti fondava la AS Costanza di cui era presidente, allenatore e ala destra e a 14 anni giocava nell’Inter (sotto il regime, Ambrosiana). Baciato dal talento e benedetto dal Cielo, grazie anche alle preghiere di mamma Ersilia che prima di ogni partita faceva dire Messa per il suo Pepineu. Più dei due gol segnati, Meazza fu decisivo nelle due sfide che, dalla stampa non di regime, sembrarono due “colpi di stato”, orditi affinché la Coppa Rimet rimanesse in Italia. Gli azzurri nel primo dei due match contro la Spagna andarono a sbattere contro la saracinesca umana, Ricardo Zamora. Il catalano era il portiere più forte del mondo: un gatto tra i pali, pararigori e fortissimo nelle uscite alte. Ma quella di Firenze gli fu fatale: Meazza con la complicità del furbo Schiavio, lo “misero al palo” segnando il gol del pareggio (1-1). Oggi con il pur orrido Var non avrebbero avuto scampo: carica sul portiere. Invece il pari sancì la ripetizione della gara e tra le Furie Rosse il più furioso di tutti era ovviamente Zamora che sentendosi «scippato » chiese alla Spagna di ritirarsi dalla competizione. Ma i suoi compagni furono costretti a scendere in campo, anche perché i venti del franchismo cominciavano a spirare forte nella direzione nazifascista. Secondo blitz, quello ai danni della nazionale austriaca, inconsapevole che quella sarebbe stata l’ultima apparizione mondiale, fino alla fine della guerra. L’Anschluss del ’38, l’annessione dell’Austria alla Germania hitleriana, pose fine al fantastico Wunderteam orchestrato dal “Mozart del pallone”, Matthias Sindelar, trovato morto nel ’39 nel suo appartamento, a Vienna, assieme alla sua compagna, l’ebrea milanese Camilla Castagnola. Quel giorno della semifinale a San Siro, i segnali della disfatta per Sindelar e compagni si fecero sentire con tuoni e fulmini prima del calcio di inizio. Poi l’uragano Guaita andò in gol, ma solo dopo uno scontro tra Meazza e il portiere Platzer. Fallo netto, sul quale il parzialissimo arbitro svedese Eklind chiuse più di un occhio convalidando la rete che spediva l’Italia alla finale. A dirigere Italia-Cecoslovacchia quel 10 giugno di novant’anni fa c’era sempre lui, Eklind che gli azzurri campioni del mondo avrebbero ritrovato anche quattro anni dopo in Francia. Ma nel ‘38, la difesa del titolo fu legittima e il 2° Mondiale, così come l’oro olimpico, rimasto unico, conquistato ai Giochi di Berlino 1936, furono vera gloria italiana. Al 90°dal primo trionfo rimangono tante pagine prive di azzurro tenebra, a cominciare da quell’uomo libero e leale che fu Vittorio Pozzo. Il ct diede il suo addio alla Nazionale nel 1950, dopo averla guidata alla conquista di 67 vittorie e 17 pareggi su 97 battaglie affrontate, sempre a testa alta, chiedendo ai suoi amati ragazzi di intonare in coro: «Il Piave mormorò, non passa lo straniero!».