Il grande ex. Glenn Strömberg: «Io, stregato dall'Atalanta»
L'ex Atalanta Glenn Strömberg
L’Atalanta di Gian Piero Gasperini questa sera sull’erba della città di James Joyce, a Dublino, si gioca una finale storica di Europa League contro i campioni di Germania del Bayer Leverkusen. «Il bello del calcio è ancora questo: due piccole città come Bergamo e Leverkusen che, alla faccia delle big, si sfidano per un titolo europeo, come quello che sfortunatamente la mia Atalanta perse contro il Malines…», ricorda scanzonato l’uomo con il volto da Kurt Russel: lo svedese storica bandiera atalantina Glenn Strömberg. Protagonista per otto stagioni (dal 1984 al ‘92) delle sorti della Dea e di quella semifinale di Coppa delle Coppe dell’88 in cui il club bergamasco, allora in serie B, stava per compiere l’impresa memorabile.
Quarant’anni dopo, il “vichingo Glenn” è rimasto qui, a Bergamo. «Impossibile spostare moglie, tre figli, sei nipoti, gatto e cane - dice ridendo -. Anche se stasera per lavoro la finale la vedrò a Stoccolma in uno studio televisivo. Commentatore per la tv pubblica («per le partite della Nazionale») e privata («specie la Premier che seguo fin da bambino quando tifavo Arsenal») subito dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, «a 32 anni, per colpa dei continui problemi muscolari». Da allora, una vita di pendolarismo aereo, tra Bergamo, la Svezia e Tenerife dove giostra abilmente, come faceva in campo, tra le sue mille attività. Commentatore di calcio appunto, imprenditore di abbigliamento «scarpe, maglie e vestiti marchio Strömberg» e fino a poco tempo fa anche di prodotti alimentari, «rigorosamente italiani, si capisce». Un menù ricco, come la sua vita da ex capellone biondo, stile Joe Tempest, il cantante della band svedese degli Europe che impazzavano nella nostra hit parade nello stesso periodo in cui il centrocampista rock Stromberg rendeva Bergamo calcisticamente sempre più alta.
E pensare che quel ragazzone di Lundby (sobborgo di Goteborg) da 191 centimetri su 85 chili di stazza atletica, non era destinato al calcio professionistico...
Infatti. Fino a 16 anni figuravo tra i primi tre giocatori di tennis tavolo più forti d’Europa. Poi entrai nelle giovanili dell’Ifk Goteborg e lì è cominciata la mia favola infinita con il pallone.
Un nome nel suo destino: mister Sven Goran Eriksson.
Sven è la persona più importante dopo quelle più care della mia famiglia e anche quella che ammiro di più, specie adesso che lo vedo affrontare la malattia in maniera esemplare. Un grande uomo che merita di essere premiato in vita con tutto quell’amore che la gente degli stadi dei club che ha allenato gli sta ridando indietro ad ogni incontro.
Glenn si ferma un attimo emozionato, poi riprende...
Io poi gli devo tutto a Sven. Eriksson mi ha aspettato quando ragazzo della seconda squadra ero stato fermo nove mesi per infortunio. Lui ha creduto subito in me e nelle mie potenzialità. Quando ha visto i test di corsa mi ha preso da parte e mi ha detto: «Glenn, tu devi imparare a correre con più intelligenza. Se correrai di più, nessuno riuscirà mai a prenderti». Da quel momento ho cominciato a tenere la palla mezzo minuto in più rispetto agli altri e così Eriksson mi ha lanciato in prima squadra e mi ha dato la maglia “17” che, assieme alla numero 13, per scaramanzia nessuno voleva prendere. Con quella maglia feci il mio debutto nel Goteborg e andai subito in gol.
Una maglia che gli ha portato fortuna: un titolo nazionali svedesi, una mitica Coppa delle Coppe e poi il passaggio dal Goteborg al Benfica, sempre sotto la guida di Eriksson.
Stagioni incredibili. La chiamata del Benfica mi fece tremare le gambe: per noi svedesi quel club aveva l’aurea della storia del calcio e il carisma del grande Eusebio. Sven mi aveva voluto, ma io pensavo: essere il “miglior giovane” di Svezia poteva significare il “peggiore” del Portogallo. Invece grazie agli insegnamenti di Eriksson feci bene e poi arrivò la grande occasione della Serie A.
Sì, ma non in un top club, ma nell’Atalanta che allora era una provinciale di rispetto ma non l’attuale reginetta d’Europa.
Vero, non andavo alla Juve o nelle due milanesi, ma ero comunque orgoglioso di giocare nel campionato più bello e difficile del mondo. Oh, come mi giravo vedevo Zico a Udine, Platini alla Juve, Rumenigge a San Siro con l’Inter. E poi il più grande di tutti, Maradona e il suo Napoli… Una Serie A così non si rivedrà mai più, ma neanche la Premier di oggi è paragonabile per qualità tecnica a quel tesoro calcistico che si era concentrato in Italia in quegli anni.
Strömberg con la maglia dell'Atalanta affronta lo juventino Michel Platini - WikiCommons
Per la generazione dei ragazzi degli anni ’80 Strömberg è sinonimo di Svezia, per i millennials invece è diventato Zlatan Ibrahimovic.
Ibrahimovic andai a vederlo al suo debutto con la nazionale svedese in Svizzera e in tribuna prima della partita ascoltavo incuriosito i giudizi degli altri commentatori. Poi lo vedo giocare e penso: cavolo, ma questo diventerà veramente uno forte. Amici con Ibra? No, solo qualche ciao di sfuggita, ma io non mi avvicino mai ai calciatori, finita la partita o vado a ristorante con gli amici di sempre o me ne torno a casa mia.
Torniamo a quelle sue annate all’Atalanta in cui oltre al “grande calcio” gli toccò anche un anno di B: era l’Atalanta di Emiliano Mondonico.
Il “Mondo”, mi manca tanto... Mondonico è stata un’altra figura fondamentale nella mia vita e non solo di calciatore. Lunedì scorso ero a un Premio con sua figlia Claudia... abbiamo ricordato papà Emiliano e come sempre mi sono scese due lacrimucce. È stato il “Mondo” a convincermi a restare anche in B, Eriksson mi voleva alla Roma.... Appena arrivato Mondonico mi disse: «Fregatene delle critiche e delle chiacchiere della gente, con te noi torniamo subito in A». Fu una stagione tosta, gli infortuni mi perseguitavano, ma lui mi rassicurava: «Durante la settimana fai quello che vuoi, l’importante Glenn è che la domenica giochi e noi vinciamo».
E Strömberg giocava forte trascinando l’Atalanta in campionato e in Coppa. Ma giocava anche a carte durante le trasferte...
Giocavo in pullman durante le trasferte, per rilassarmi. Ma un giorno il “Mondo” si arrabbiò: «Sono tre ore che hai queste carte in mano, basta che fa male alla concentrazione». Tornato a Bergamo dopo una trasferta con la nazionale svedese in cui avevo perso ero furioso e lo affrontai a muso duro urlandogli che almeno 2 ore su tre di viaggio avrei giocato a carte. Tutti i compagni mi guardavano muti, impalliditi, temevano che sarebbe successo un gran casino... Mondonico invece non si scompose e disse: «Va bene, se lo dice Strömberg allora facciamo come dice lui». I compagni vennero a congratularsi come se avessi fatto chissà che cosa. Il giorno dopo prima dell’allenamento andai da lui e gli chiesi spiegazioni sul perché avesse accettato le mie condizioni ed Emliano sorridendo mi disse: «Glenn, ti ho dato un’arma, ora usala bene. Ma sono sicuro che lo farai». Aveva imparato a leggermi dentro e io non avrei mai potuto deluderlo: mi aveva ridato la fiducia che avevo smarrito e nominato leader di quella Atalanta.
Cosa mancava a quella sua Dea per essere competitiva come quella di adesso?
Io dico sempre che noi siamo stati bravi ad aprire una strada, ma il lavoro fatto in questi anni dal presidente Percassi e da Gasperini è qualcosa di eccezionale e imprevedibile. Mai avrei immaginato quello che gli ho visto fare contro il Liverpool ad Anfield Road: la squadra di Klopp è rimasta impressionata dall’intensità dell’Atalanta, e sì che i Reds in quello sono dei maestri. E mai avrei pensato di girare per l’Europa e sentire ovunque tanta ammirazione per Gasperini e i suoi ragazzi. Mi chiamano emittenti e giornalisti di tutte le parti per spiegare che cosa sia il “fenomeno Atalanta” e lo faccio con orgoglio perché mi sento un po’ un ambasciatore nel mondo di questa splendida realtà. Comunque vada con il Bayer Leverkusen, l’Atalanta è già campione d’Europa di simpatia.