Agorà

Intervista Davide Paolini. Cari chef, è ora di tornare ai fornelli

Giovanni Caldara sabato 31 dicembre 2016

Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro, libro apparso postumo nel 1986, individua un legame inestricabile tra l’esperienza autentica del viaggiare e quella di cibarsi, descrivendola in questi termini: «Il vero viaggio in quanto introiezione d’un fuori diverso dal nostro abituale implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura […] facendole passare per le labbra e l’esofago». Proprio queste parole hanno ispirato il “Gastronauta” per eccellenza, Davide Paolini – dal nome della trasmissione radiofonica che conduce dal 1999 – e che ha fatto conoscere agli italiani i tesori gastronomici sparsi sul loro Paese, dedicando però un’attenzione speciale ai tanti agricoltori e artigiani impegnati a crearli. Ci riferiamo a quella silenziosa, ma essenziale schiera di produttori – il fondamento del nostro made in Italy agroalimentare – che oggi, davanti all’opinione pubblica, viene messa quasi del tutto in ombra dal protagonismo dell’ultimo anello di questa catena: da quei cuochi che spuntano dappertutto a ogni ora del giorno. Com’è possibile allora, domandiamo a Paolini, titolare il suo ultimo saggio Il crepuscolo degli chef (Longanesi, pagine 212, euro 16,40), quando proprio uno di loro, Massimo Bottura, è stato appena indicato tra i creativi più influenti dell’anno dal New York Times o quando tra i testimonial della Giornata contro la violenza sulle donne sono stati scelti i volti di due noti cuochi, il televisivo chef Rubio e lo stellato Oldani? «Non c’è dubbio che in questo momento i cuochi sono diventati dei veri e propri opinion leader – risponde l’autore –. Parlano a tutto campo, prendendo posizione su ogni ambito della società. Il titolo del mio libro è una citazione dal Crepuscolo degli dei di Wagner che parte però dalla constatazione che il crepuscolo è quella fase della giornata in cui vi è ancora luce e dunque c’è ancora speranza».

Speranza in che cosa?
«Rispondo con la frase di uno dei più grandi chef al mondo, il francese Paul Bocuse, con cui chiudo il libro, e che di recente ha così ammonito i suoi colleghi: “Io li ho fatti uscire dalle cucine, ora è arrivato il momento di rientrare”».

Quale pericolo dobbiamo scongiurare?
«Che il crepuscolo si trasformi in notte fonda. Quando l’ossessione del cibo mediatizzato diventerà rigetto. Se è vero che i consumi alimentari pro capite si allineano oggi ai livelli dei primi anni Ottanta, tuttavia, nonostante il trend negativo, il settore agroalimentare italiano vale circa 130 miliardi di euro, quasi il 10% del Pil, il che rappresenta una ricchezza e un’occasione da non perdere».

Nel sottotitolo del libro si legge: «Contro l’analfabetismo gastronomico». Su quali aspetti dovremmo soffermarci?
«Bisognerebbe per esempio capire come nasce un formaggio. O cercare di spiegare come si svolge la catena del freddo dei vari alimenti. Insegnare a leggere le etichette dei prodotti confezionati. Un’informazione corretta mostrerebbe come una dieta priva di glutine, al di là dei casi d’intolleranza, non aiuta a dimagrire e piuttosto dovremmo concentrarci sulla qualità a volte pessima delle farine. Dobbiamo occuparci di agricoltura e di prodotti gastronomici. Ma anche cultura scientifica e conoscitiva sulla nutrizione. Non abbiamo bisogno di nuovi talent show ».

Che cosa c’è di sbagliato nei vari programmi che parlano di cucina e quindi aumentano l’attenzione per questo mondo?
«I vari talent legati alla cucina sono spettacoli che hanno aumentato il voyeurismo gastronomico. Non danno informazioni al consumatore su come nasce un cibo o su chi lo produce. Si vede solo l’abilità del cuoco ai fornelli. Lo spettatore non riesce a capire come si costruisce un piatto, perché la tv impone i suoi tempi che non sono quelli con cui si preparano i cibi nella realtà. Vi è poi un’insistenza eccessiva sulla componente estetica».

Un dato innegabili oggi resta, però, l’incremento delle iscrizioni dei ragazzi agli istituti alberghieri. Non le sembra un aspetto positivo?
«Mi chiedo quanti di loro amino questa professione, che li porterà a stare ore e ore in cucina, o forse l’idea di diventare famosi. Piuttosto, registro con grande interesse il parallelo incremento delle iscrizioni negli istituti agrari come nelle facoltà di scienze agrarie e alimentari».

Perché insieme a una cultura alimentare è necessario un modo diverso di fare impresa?
«Perché serve una politica di attacco, non di difesa per penetrare nei mercati internazionali: fatta di logistica, distribuzione, vendite on line, turismo gastronomico, senza dimenticare le piccole e medie imprese (che hanno potenzialità, ma grandi difficoltà a esportare), ma anche tenendo conto del settore finanziario (che può far crescere il peso delle società) e soprattutto l’agricoltura».

Perché gli chef non sono il cuore della cucina italiana?
«Lo sono i prodotti e i produttori. La nostra realtà (e ricchezza) sono gli spaghetti al pomodoro ».