Perugia. Vedute o visioni? Le molte eredità di Piranesi
G.B. Piranesi, "Veduta della vasta Fontana di Trevi"
Quanto deve a Piranesi la percezione e la narrazione contemporanea dell’Italia e del suo patrimonio? L’Italia dei tesori, l’Italia delle ecceziona-lità, l’Italia di un patrimonio monumentale unico ma anche il senso di una bellezza passata, di gran lunga superiore a quella offerta dal presente, e forse ormai perduta? Certo è anche l’immagine uscita dall’esperienza del Grand Tour e che forse, meglio ancora, la precede. Si partiva per la penisola con aspettative così alte che non potevano essere tradite. Quelle aspettative le avevano create anche le stesse incisioni piranesiane, uscite dal torchio di Palazzo Tomati e acquistate non solo dagli aristocratici di passaggio a Roma ma anche dalla classe di artisti e intellettuali forestieri che nell’Urbe erano di stanza e che andavano rielaborando una nuova mitologia dell’antico sulla base di principi filologici. Una visione modellata dalle e sulle vedute piranesiane diffuse tra un pubblico internazionale, e che poi sarebbe stata assimilata da un’Italia in cerca di una identità nazionale (il Belpaese dell’abate Stoppani è del 1876).
Si può misurare il peso dell’eredità piranesiana nella mostra che la Galleria Nazionale dell’Umbria (recentemente riallestita in modo eccellente e con interessanti inserti contemporanei) dedica ai due volumi delle Vedute di Roma, contenuti nelle sue collezioni insieme a quelli delle Antichità d’Albano e di Castel Gandolfo: fogli di formato atlantico, anche questa invenzione decisiva di Piranesi, che da una parte corrisponde alle masse ciclopiche delle architetture e degli spazi, dall’altra traghetta la veduta all’acquaforte fuori dal formato ristretto e dalla scarna informazione visiva per portarla in una dimensione pienamente artistica ma soprattutto fantastica e persuasiva – quella che oggi chiameremmo “immersiva”.
Le incisioni sono state oggetto tra 2018 e 2020 (anno piranesiano nel quale era prevista la mostra, slittata a causa della pandemia) di un importante restauro che ne ha restituito la perfetta leggibilità. È così possibile seguire tutto l’iter tracciato dalla cronologia pluridecennale delle tavole, a partire dalle prime vedute dette “bionde” per l’assenza di quel chiaroscuro, a tratti furioso, che caratterizza le ultime.
Nelle lastre si stratificano molti livelli. C’è evidentemente il sentimento del luogo ma allo stesso tempo la sua trasfigurazione; la libertà che Piranesi si prende rispetto alla scala, rimarcata dalle guizzanti figurine con tranche de vie (un foglio di Piranesi va guardato con una lente di ingrandimento) contrasta con l’assoluta accuratezza di proporzioni e dettagli, dove l’architetto e l’ingegnere incontrano l’artista: il segno restituisce con estrema precisione ma anche con sagacia luministica la storia delle differenti superfici, l’impiego dei materiali, le soluzioni tecnologiche.
Come osserva la curatrice Carla Scagliosi, responsabile delle collezioni moderne e contemporanee della Galleria, «le Vedute raccontano esemplarmente dell’evoluzione non solo tecnica e stilistica, ma anche teorica e poetica» dell’artista. Scagliosi in particolare insiste giustamente sulla matrice veneziana per comprendere Piranesi, specie per quanto riguarda la capacità di restituire la dimensione atmosferica e luministica: «Gli elementi – scrive nel catalogo (Aguaplano) – sono percepibili e danno, letteralmente, respiro e movimento alle immagini; l’aria, il vento, le nubi acquistano una loro caratteristica configurazione e solcano i cieli di Piranesi, animandoli con la stessa variabilità con la quale muta l‘aspetto del reale».
A questo va aggiunto la concezione teatrale con cui Piranesi restituisce Roma: l’antico ma anche l’ultima stagione del barocco, di cui Piranesi sentiva evidentemente il valore ma anche il suo definitivo tramontare, tempi irripetibili, da consegnare alla memoria e soprattutto al sogno. Sede privilegiata del gran teatro del mondo, la città è costruita come uno scenario d’opera: vedute d’angolo, spazi che si aprono su altri spazi, fughe all’infinito. E in primissimo piano una stretta lingua abitata da maschere, come un proscenio. È teatrale anche il moltiplicarsi dei punti di vista e delle prospettive differenti, probabilmente frutto dell’uso della camera ottica, e poi assemblate in una sola sorprendente immagine. L’operazione di montaggio è quanto accomuna la veduta al capriccio, là dove invece tratteggeremmo una linea di demarcazione. È solo, invece, la diversa applicazione di uno stesso esercizio di fantasia.
Si capisce allora come le Carceri di Invenzione, che tanto hanno affascinato l’epoca romantica e il Novecento, non siano un frutto a parte. Queste ultime in mostra sono evocate da una videoinstallazione di Grégoire Dupond con la musica di Teho Teardo che esplicita la tridimensionalità degli spazi, rivelandone la coerenza e le aporie. E portando davanti agli occhi un’altra feconda eredità, questa volta nativa digitale come può essere il mondo del videogame, di Piranesi.
Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria
Piranesi
Fino all’8 gennaio