La morte di Giulio Andreotti ha suscitato numerose reazioni. Molte, però, sono state segnate dal primato dell’ovvietà. Un politico abile, ma ambiguo: è stato questo, in sintesi, il giudizio più frequente. Ma si tratta, in sostanza, di un non giudizio che equivale a non prendere posizione. Persino Napolitano, le cui parole sono spesso dense e significative, si è limitato a dire che lo giudicherà la storia, sottraendosi a una valutazione e prendendo implicitamente le distanze. Evitare un giudizio netto su Andreotti significa però evitare anche un giudizio netto sul suo tempo e, implicitamente, di giudicare noi stessi e il nostro tempo. Non è un caso che le accuse di continguità con la mafia siano state formulate contro Andreotti nel 1992, un anno cruciale in cui cominciò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Fu un modo per prendere le distanze non solo da un sistema politico, ma anche da un intero ciclo storico, nella prospettiva di aprirne uno radicalmente nuovo. Ma, a distanza di tanti anni, come quelle accuse non sono state chiaramente provate così la nascita di un nuovo sistema politico appare ancora incompiuta. Ecco perché si evita di giudicare Andreotti: per non pronunciare anche, implicitamente, un giudizio su se stessi. La difficoltà di giudicare il passato, e specularmene di valutare il presente, emerge con ancora maggiore chiarezza con un’altra figura, meno discussa di Andreotti, quella di Aldo Moro. A partire dal 1978, l’attenzione si è concentrata in modo prevalente sul rapimento e sull’assassinio del presidente della Democrazia cristiana. Continuano a mancare, invece, un’analisi e una valutazione complessiva dell’opera politica da lui compiuta. L’attenzione degli studiosi più giovani tende a rivolgersi oggi soprattutto alla politica estera, mentre assai minore appare l’interesse per l’uomo politico, il segretario di partito, il presidente del Consiglio e, soprattutto, il maggiore protagonista della politica interna italiana per due decenni. Anche questa tendenza conferma una distanza dalla politica di oggi, che si riflette nell’atteggiamento verso il passato. Ma proprio per questo, tornare su Andreotti e su Moro può essere molto utile anche per il nostro oggi: ci obbliga a fare i conti, in modo più approfondito, col nostro presente. Da Moro in particolare viene la lezione di una concezione alta della politica cui egli ha dedicato tanto impegno e, alla fine, la vita stessa. Quest’impegno non è scaturito, in primo luogo, da una sua scelta. Giovane professore universitario era avviato verso una brillante carriera, che ha invece dovuto interrompere. A distanza di anni ricordò: «abbiamo ricevuto un mandato». Il vescovo di Bari, monsignor Marcello Mimmi, chiamò Moro, che aveva già ricoperto la carica di presidente della Fuci ed era passato ai Laureati cattolici, per invitarlo a impegnarsi in politica. Non si tratta di un caso isolato: anche Fanfani ha raccontato di un autorevole invito giunto da Pio XII e Scalfaro mostrò una forte resistenza a entrare in politica vinta solo dal fermo richiamo del vescovo di Novara. Questi «politici loro malgrado» si sono rivelati nel tempo ottimi politici. Non è un caso: essi hanno avvertito costantemente il dovere di rispondere a una chiamata e di adempiere un servizio, hanno sentito cioè che la loro azione non poteva limitarsi a riflettere piccole ambizioni personali. Il mandato ecclesiastico non ha ispirato in loro un progetto clericale. Il politico pugliese, in particolare, si è dedicato a un’attenta opera di "regia" della politica italiana: leader di un partito, ha però concentrato la sua attenzione sull’elaborazione di forme diverse di collaborazione tra i vari partiti, dal centro sinistra alla solidarietà nazionale, nel tentativo di coinvolgere la più ampia fascia possibile di cittadini nella vita delle istituzioni. Ha così contribuito, più di altri, a una articolazione della politica italiana molto più raffinata del bipolarismo, piuttosto rozzo, della seconda Repubblica. E soprattutto ha contribuito ad attirare verso le istituzioni un consenso e una partecipazione preziosi in una realtà, come quella italiana, costantemente segnata da una storica fragilità dello Stato.