Agorà

Il ricordo. Pocorni: «La tragedia di mio padre, scampato alle foibe e morto nel lager»

Lucia Bellaspiga venerdì 9 febbraio 2024

Il piccolo Oreste Pocorni (il primo a destra) esule a Ravenna con la mamma e i due fratellini, baraccati

La cartolina inviata in fretta alla moglie prima di essere deportato da Pieve di Soligo (Treviso) nel campo di concentramento nazista rappresenta una famigliola felice che abbraccia il papà in partenza, e sotto una didascalia in lingua italiana: “Ferie! Uno dei più graditi diritti dell’operaio che lavora in Germania”. Dietro, il testo scritto a mano di ben altro tenore: “Carissima Emma, purtroppo parto per la Germania. Per ogni bisogno rivolgiti al dottor Lubin. Baciami i bambini e scrivi a mamma”, firmato Italo Pocorni, Treviso 11 agosto 1944. E accanto un’altra didascalia: “Operai italiani, arruolatevi volontari per lavorare in Germania”! Già, Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, era scritto anche all’ingresso di Auschwitz… “Il giorno in cui i due tedeschi lo prelevarono nella casa di Pieve di Soligo dove eravamo profughi, papà aveva 37 anni e io ero un bambino di 5 – racconta oggi il figlio Oreste –, ma ricordo bene il pianto disperato di mia mamma e di noi piccoli. Il più anziano dei due alla fine voleva lasciarlo andare, ma il più giovane si impuntò e lo portarono via. Lui ci tranquillizzava dicendoci che sarebbe tornato presto, poi arrivò quella cartolina e non lo vedemmo mai più”. Così una seconda ferocia, quella nazista, infieriva sulla famiglia Pocorni già colpita pochi mesi prima dalla persecuzione comunista del maresciallo jugoslavo Tito e sfuggita su una barca alla strage di italiani a Zara. Ma andiamo con ordine.

La cartolina inviata alla famiglia prima di essere deportato nel campo nazista in Germania - Archivio Famiglia Pocorni

Italo Pocorni era nato in Dalmazia (oggi Croazia) nel 1907 e nella Zara italiana aveva trascorso la sua vita serena insieme alla moglie Emma Marinello e ai loro tre bambini: grazie allo stipendio di contabile nella ditta Vlahov, produttrice del liquore maraschino, la famiglia viveva un’esistenza spensierata, in pacifica convivenza con le diverse etnie che anche a Zara, come in tutta l’Istria e la Dalmazia, coabitavano da secoli: un crocevia di culture e di lingue scritto anche nel suo nome (Italo) e cognome (Pokornj sotto l’Austria-Ungheria, origini di Praga). Almeno fino all’irrompere dei nazionalismi, della guerra e degli odi da questa scatenati. “Io sono nato nel 1939, si viveva tutti in armonia, in città eravamo italiani, dalle campagne venivano tutti i giorni i contadini croati a vendere i loro prodotti – continua il racconto del figlio Oreste nella sua casa di Ravenna –, ma tutto precipitò e nel novembre 1943 a 4 anni vissi la tragedia dell’esodo definitivo dal paradiso terrestre, il mare blu di Dalmazia e i marmi bianchi della città veneziana lasciata per sempre: noi cittadini eravamo tra due fuochi, da una parte i 54 bombardamenti anglo-americani che ingiustificatamente rasero al suolo una città priva di obiettivi militari, dall’altra i partigiani di Tito che già decimavano le famiglie italiane. Da noi non c’erano le foibe come in Istria, così la gente spariva nelle cosiddette “foibe d’acqua”, affogata nel mare”. Zara, 25mila abitanti, fu la prima delle città adriatiche a vivere l’esodo di massa. “Iniziava la nostra odissea”.

Il piccolo Oreste a Zara con il papà Italo. Mancano pochi mesi all'esodo definitivo - Archivio famiglia Pocorni

Il 2 novembre del ’43 il primo bombardamento alleato, invocato e ottenuto da Tito. “Noi da qualche giorno ci eravamo rifugiati nelle campagne fuori Zara, in territorio già jugoslavo, e la famiglia slava che ci affittava la camera ci procurò una barca di pescatori che ci portassero in salvo a Lussingrande, nell’isola di Lussino. Ci restammo quaranta giorni, finché arrivarono anche lì i partigiani di Tito e inoltre gli Alleati bombardarono il porto di Lussinpiccolo affondando il Sansego, il vaporetto che portava in salvo gli esuli da Zara sull’altra sponda adriatica, verso Ancona o Trieste”. La famiglia Pocorni aveva perso tutto, la casa, la città, il lavoro, le relazioni umane, i legami, la propria storia. “Il dolore fu così acuto che mia mamma qualche anno fa, quando l’abbiamo riportata per la prima volta a Lussingrande in gita, non ricordò assolutamente niente di una cittadina che eppure era rimasta identica. Noi ci torniamo ogni estate in vacanza e, confrontando le antiche foto di quei giorni con la Lussino di oggi, ritroviamo persino lo stesso muretto al quale stavano appoggiati mio padre Italo e l’industriale del maraschino Vlahov, profugo anche lui… Ma mia madre Emma aveva rimosso quei quaranta giorni di patimento”.

Come tutti i capifamiglia, anche Italo secondo il programma espansionista di Tito sarebbe stato quasi certamente eliminato, così da Lussino la fuga riprende verso Trieste, “ricordo quel viaggio nel dicembre ’43, con gli Stuka tedeschi, aerei da combattimento in picchiata, che si abbassavano sopra la nostra nave per valutare se affondarla. Tutti gli uomini furono allora nascosti sottocoperta insieme ai bambini, e sul ponte le donne sventolavano lenzuola bianche… L’abbiamo scampata in questo modo e giorni dopo eravamo a San Daniele, in Friuli, dove prendemmo in affitto una camera. Lì trovammo anche Vlahov e i miei nonni paterni, fu una grande sorpresa, immortalata da una foto che ancora conservo”.

Furono 350mila gli esuli giuliano-dalmati che tra il ’43 e la fine della guerra (alcuni addirittura negli anni ’50) partirono letteralmente verso l’ignoto, a volte riuscendo a portar via le proprie cose, ma spesso con rocambolesche fughe notturne, tra rastrellamenti e fucilazioni da parte dei titini. Al momento si scappava senza una meta, per salvarsi la vita. Ma poi bisognava riprovare a vivere, cercare una nuova patria, un letto, un lavoro, tutto da zero, e allora due erano le figure di riferimento cui si guardava, il sacerdote e il medico: dove erano approdati loro, esuli, lì arrivava la loro gente. “Anche noi, dopo aver saputo che il dottor Luigi Lubin, medico all’ospedale di Zara, era scappato a Pieve di Soligo, lo seguimmo lì, dove infatti pian piano si radunò una piccola comunità di zaratini. Lubin diventò il medico del paese, in Veneto se lo ricordano ancora e mi ha commosso scoprire che una via di Pieve è dedicata a lui, si vede che ha ben seminato”. Figura di alta moralità, anche a Zara era il medico di tutti, italiani o slavi o tedeschi che fossero. Non a caso nella drammatica cartolina con cui tra qualche mese Italo Pocorni si commiaterà dalla moglie partendo per la Germania le raccomanderà “per ogni bisogno rivolgiti a Lubin”. E così Emma farà…

La comunità di esuli zaratini a Pieve di Soligo intorno al "loro" medico Lubin, al centro con occhiali - Archivio famiglia Pocorni

Quando la vita sembra aver ripreso il suo corso, nell’estate del ’44 a Pieve di Soligo un’azione di guerriglia partigiana attacca i tedeschi e la rappresaglia nazista non si fa attendere: gli uomini vengono rastrellati senza distinzione e Italo Pocorni è tra questi, portato via di casa il 10 agosto del ’44 sotto gli occhi dei tre bambini. “Ho saputo di recente che il dottor Lubin si recò al comando tedesco e fece di tutto per salvarlo, ma non ci fu niente da fare”, racconta Oreste. “Riuscì comunque a rintracciare mio zio materno, che da Zara era finito a Ravenna: mia mamma nel dolore aveva perso la mente e qualcuno doveva prendersi cura di noi bambini”.
Intanto Italo, ormai in Germania, passava attraverso vari campi di lavoro, “lo sappiamo dalle poche cartoline che riusciva via via a mandarci”, l’ultima da Erfurt dove è morto il 10 gennaio del 1945, di stenti. Sono cartoline bugiarde per amore, soprattutto l’ultima, datata 15 novembre 1944, due mesi prima della fine. Italo non si lamenta, “io finora sto bene, non ti preoccupare, pensa per te e i bambini”. Chiede se studiano, come stanno a soldi, “hai ricevuto il premio e sussidio per la mia partenza in Germania?”. La loro lontananza lo tormenta, “non riesco a darmi pace senza di voi, spero in Dio di ritornare e riabbracciarvi tutti”. Infine la nota più struggente: “Tanti auguri per l’anniversario del nostro matrimonio che scade il 30 novembre. Tuo indimenticabile Italo. Tanti baci dal vostro papà”. Oreste oggi le sfoglia nella sua casa di Ravenna. Ha più del doppio degli anni che aveva suo padre quando gli scrisse questo addio, ma quello è di nuovo il suo papà e lui torna quel bambino: “Si lambiccava a pensare come darci da mangiare mentre era in Germania – scuote la testa commosso –, persino indicò alla mamma a chi vendere la sua amata bicicletta per racimolare un po’ di soldi”.

Degli italiani prelevati quel giorno dai tedeschi, tornarono tutti meno due, Italo e un altro giovane zaratino. Appena ne ebbe la forza Emma partì con i tre figli per Ravenna, dove il fratello rintracciato dal medico le aveva trovato un posto in campo profughi, una camerata allestita dentro la ex caserma, “ricordo altre famiglie arrivate da Fiume e le file per il bagno, con la mastella in cui ci lavavamo”... L’Italia era già Repubblica e la guerra era finita da tre anni quando nel 1948 i Pocorni finalmente lasciarono la camerata per un alloggio popolare. Emma si rimboccò le maniche facendo le pulizie per le famiglie della città, “e ricordo la solidarietà tra profughi, intanto le altre donne ci accudivano, si aveva poco ma quel poco lo si divideva. Sotto casa c’era una mensa dell’Anpi, l’associazione dei partigiani italiani, così per arrotondare io custodivo le biciclette degli operai che la sera fino a tardi venivano a bere qualcosa. C’era una garitta dei finanzieri, e siccome faceva freddo mi lasciavano riparare là dentro”.

Negli anni ’50 Emma ha provato a seguire il flusso di tanti esuli giuliano-dalmati verso l’Australia, ma poi non ce l’ha fatta ad andare dall’altra parte del mondo. Nei documenti già rilasciati dall’Ambasciata australiana c’è tutta la ferita di una storia assurda: “Born in Yugoslavia”, è scritto, e poi “Nationality VG”, nazionalità Venezia Giulia, una confusione che ancora oggi i nati in Italia, quando cioè Pola, Fiume, Zara ne facevano ancora parte, subiscono spesso sui loro documenti. La morte di Italo è rimasta “presunta” fino al 1949, quando un certificato dello Stato Civile ha messo fine a ogni speranza, ma lasciando “sconosciuto il luogo di sepoltura”. Solo nel 1974 – queste storie sembrano non finire mai – il ministero della Difesa ha fatto sapere alla famiglia che in Germania in una cassettina era raccolto ciò che restava di Italo e che, se i parenti ne avevano intenzione, potevano rimpatriarla a spese loro. “Era importante per noi, dovevamo mettere un punto a questa tragedia che ci aveva segnati per tutta la vita”, conclude Oreste Pocorni, “oggi mio padre ha finito di peregrinare ed è sepolto qui a Ravenna con mia mamma, morta nel 1992. Chi ha genitori e fratelli ancora sul fondo di una foiba non ha mai elaborato il lutto…”. Ogni anno il Giorno del Ricordo è sempre più doloroso in questa casa dove la storia con le sue tragedie ha bussato due volte: “Il Giorno della Memoria per le vittime dei nazisti ce lo riconoscono tutti, ma il Ricordo delle crudeltà di Tito è ancora controverso, per questo soffro di più”.

Oreste Pocorni e Giuliana Andricci oggi nella Dalmazia da cui dovettero fuggire - Archivio famiglia Pocorni

Un ultimo racconto: “A Ravenna nelle case popolari a volte veniva in visita dai nostri vicini una famiglia originaria di Lussino con una bambina di nome Giuliana. Io avevo 10 anni, lei sei mesi di meno. Diventavo tutto rosso e scappavo”. “Ma nel 1966 ci siamo sposati”, sorride Giuliana accanto a lui, “abbiamo due figlie e quattro nipoti, tutti innamorati della Dalmazia, insieme siamo tornati a cercare la casa dove mio marito era nato e l’abbiamo trovata grazie a un’anziana croata che ricordava, è stata un’emozione forte”. A casa parlano ancora il caro dialetto veneto di Zara, “anche se l’accento è romagnolo!”.