Mentre anche in Europa, si accende il dibattito sugli studi umanistici tradizionali davanti alle nuove esigenze culturali e produttive, il governo giapponese si muove per abrogarli concretamente negli atenei nazionali o, almeno, per limitarli fortemente. La circolare inviata recentemente a tutti i rettori delle università nazionali dal ministero dell’Educazione, è stata un’onda d’urto alimentata da una reazione in parte di acquiescenza, in parte di rifiuto. Al centro, anzitutto, la sua interpretazione: la lettura più accreditata mette in luce come si chieda in modo non ultimativo che i dipartimenti e le facoltà dedicati a studi umanistici e scienze sociali vengano aboliti, oppure che i loro piani di studio siano modificati in modo da renderli «di maggiore valore pratico».Per certi aspetti una posizione in linea con la tradizione di valutare lo studio accademico in termini utilitaristici e con una pressione costante del mondo imprenditoriale per un rilancio industriale. Non va ignorato, infatti, ricorda Takamitsu Sawa, preside dell’Università di Shiga, presso la storica capitale Kyoto, «che le politiche legate all’istruzione superiore sono elaborate dal Consiglio per la competitività industriale, formato da nove ministri, da sette manager aziendali e due studiosi: un ingegnere e un economista!». Secondo il più diffuso quotidiano giapponese, lo “Yomiuri Shinbun”, delle 26 università nazionali che avrebbero recepito le indicazioni ministeriali, 17 hanno segnalato la disponibilità a interrompere i corsi di laurea, mentre tutte proseguiranno solo i corsi non indirizzati a ottenere un diploma specifico nelle materie considerate superflue, tra queste Letteratura, Storia, Filosofia, ma anche Legge, Economia, Sociologia. Eccezioni di peso l’Università di Tokyo e quella di Kyoto. Nei termini attuali, la polemica sull’orientamento delle università risale a oltre mezzo secolo fa. Nel marzo 1960, fu l’allora ministro dell’Educazione nel gabinetto liberal-democratico guidato da Nobusuke Kishi a indicare l’opportunità dell’abolizione degli studi umanistici e sociali nelle università per lasciare spazio a materie di uso più pratico. Aggiungendo il suggerimento di relegarle negli atenei privati, tolte quindi dal programma educativo. Sollecitato dall’ambiente imprenditoriale, questo fu anche uno dei pilastri del piano di “raddoppio del reddito” annunciato dal successivo premier, Hayato Ikeda, che per fortuna lasciò quasi invariata la situazione. A beneficio, si potrebbe sostenere, della classe politica, burocratica e imprenditoriale odierna, uscita proprio dalle facoltà allora minacciate di ristrutturazione che hanno fornito – secondo critici – le basi e capacità di giudizio richieste dalla gestione del Paese.Al culmine della polemica, un esponente della commissione ministeriale di saggi con compito di consulenza, è arrivato al punto di dire che le facoltà di scienze umane e sociali dovrebbero sopravvivere soltanto nelle sette ex università imperiali e alla Keio, mentre quelle in altri atenei dovrebbero trasformarsi in scuole di istruzione professionale, con corsi di edilizia e di Diritto delle costruzioni a sostituire lo studio della Costituzione. Allo stesso modo, gli studi economici si vedrebbero superati da quelli di programmazione gestionale e ragioneria e la lettura di Shakespeare in lingua originale sostituita da uno sviluppo della conversazione in inglese. In ogni caso, la sollecitazione alle 86 università nazionali affinché aboliscano gli studi umanistici a favore di «qualcosa di maggiore utilità sociale» è sembrata a molti troppo diretta e perfino brutale e ha sollevato come previsto un’ondata di proteste.«Proposte oltraggiose», le ha definite Takamitsu Sawa, capofila del fronte antiministeriale, sul quotidiano “Japan Times”, che «rievocano echi del militarismo che ha condotto alla Seconda guerra mondiale, quando gli studenti di scienze e ingegneria furono esentati dalla chiamata alle armi».Non è un mistero per nessuno che una popolazione in rapido invecchiamento e contrazione pone un peso sempre maggiore sul bilancio statale e sul numero degli studenti. Di conseguenza, il governo tende a contrarre i bilanci per l’istruzione, ma soprattutto a orientare le risorse verso settori considerati più utili, produttivi. D’altra parte – come sottolinea Jeff Kingston, direttore della facoltà di Studi asiatici alla Temple University di Tokyo, nel mondo accademico e fuori «vi è preoccupazione che questa situazione porti a uno svuotamento della democrazia giapponese» e i settori più progressisti del paese «la vedono nel contesto dell’agenda ideologica (nazionalista e per certi aspetti militarista,
ndr) proposta dal premier Shinzo Abe». Una contesa che rischia di sfuggire al controllo delle autorità e di inserirsi in un più ampio dibattito sulle prospettive del paese, al punto che anche la Confindustria giapponese (la potentissima Keidanren), ha cercato di ammorbidire le sue posizioni conservatrici e favorevoli allo sviluppi di studi scientifici. «La circolare ministeriale sembra riflettere il desiderio imprenditoriale di disporre di maestranze “pronte all’uso” – ha segnalato – ma ciò che noi vogliamo è esattamente l’opposto». Insomma, la confusione regna totale, in attesa di interventi concreti. Non aiutano le precisazioni ministeriali, a partire da quella che indica come il riferimento a un’“abolizione” fosse riferito solo a alcuni corsi di preparazione – considerati obsoleti – per i docenti.