Agorà

Dibattito. Gianni Vattimo e il "credere di credere": molto più che una provocazione

Giuseppe Lorizio venerdì 22 settembre 2023

Il filosofo Gianni Vattimo nel 2006

Mentre accompagna con la preghiera il feretro del filosofo che si accinge a varcare la soglia della chiesa di San Lorenzo in piazza Castello a Torino, per la celebrazione delle esequie secondo il rito della chiesa cattolica, il teologo credente è chiamato ad abbassare la guardia dell’ortodossia dottrinale per interrogarsi sulle intersezioni, che nel caso di Gianni Vattimo possiamo ben denominare “incroci”, fra la figura del pensatore e la propria fede cristiana. Si tratta da un lato di staccare le etichette, che di volta in volta sono state cucite sulla sua persona e sul suo pensiero, in particolare quella del “relativismo” e del “nichilismo” (in senso banale), ed esercitare una riflessione che sostenga e accompagni la pur inevitabile emozione suscitata da questa perdita. E ciò, si spera, a vantaggio di quanti si stanno interrogando sul significato di questo pensiero nel panorama contemporaneo e in rapporto al Cristianesimo. E non sarà arduo rilevare come si tratti di incroci non casuali, né occasionali, ma profondamente innestati sulla biografia e sulla riflessione che i suoi numerosi scritti ci consegnano.

Il primo di questi “incroci” è appunto quello biografico. I commenti che in questi giorni si sono espressi nei media hanno quasi sempre sottolineato l’innesto del giovane Vattimo nell’Azione Cattolica e la sua militanza generosa nelle fila di questa istituzione. Ma si trattava dell’Ac di Luigi Gedda, che si esprimeva nelle adunate oceaniche e negli inni, uno in particolare, che evocavano analogie militaresche, esibendo i propri membri come l’esercito all’altare a servizio del bianco padre che da Roma era percepito come “meta, luce e guida”. Note e inno che hanno risuonato fino al Vaticano II e coinvolto anche chi, come il sottoscritto, appartiene alla generazione successiva rispetto a quella del filosofo. Molto opportunamente l’amico Alberto Chiara ha ripreso la testimonianza di Vattimo nei confronti di Carlo Carretto, raccolta nel 2010 in vista della pubblicazione di un libro a lui dedicato. Suggestivo il titolo di “operaio del Getsemani” che il Nostro si attribuisce all’epoca, ma si tratta dell’imponente complesso voluto da Gedda a Casale Corte Ferro, dove la via crucis è incastonata in un contesto decisamente trionfalistico e molto lontano dall’orto degli ulivi evangelico. La rottura con questa visione del cattolicesimo militante sarà inevitabile e si consumerà nei primi anni Cinquanta. Di qui il rovesciamento della prospettiva che caratterizzerà il pensiero di Vattimo fino alla fine. Nelle tante ricostruzioni concernenti il “cattolicesimo” del filosofo colgo un’annotazione dovuta alla penna di Cesare Martinetti sul quotidiano della loro città La Stampa (20 settembre scorso): «Superata la maturità nel 1954, spinto da monsignor Caramello, si iscrive anche lui a Filosofia [dove lo aveva preceduto il compagno di Azione Cattolica Umberto Eco], perché non c’era Teologia» (sottolineatura mia). Fra i danni collaterali dell’esilio della scientia fidei dalle Università dello stato italiano, forse va annoverata proprio la perdita di personaggi della statura del Nostro, che accingendosi al fare filosofia, finiranno col produrre una cripto-teologia, la quale nulla ha da invidiare al filosofare cosiddetto laico, ma che sarebbe meglio chiamare “laicista”.

Il secondo “incrocio” potrei definirlo genericamente “storiografico” e ci consente il passaggio dalla biografia alla filosofia, che comunque sempre si innesta nell’esistenza di chi la esercita. Si tratta qui del profondo e innegabile nesso fra l’Occidente e il Cristianesimo, ma altresì il ruolo genetico della rivelazione nel costituirsi dell’ermeneutica. Basta sfogliare le pagine del meritorio volume, che raccoglie gli scritti più importanti del filosofo (Scritti filosofici e politici, La nave di Teseo, Milano 2021) per rendersi conto di quanto tale genetico e costitutivo nesso sia ritenuto decisivo. «Riconoscere l’appartenenza dell’ermeneutica alla tradizione religiosa dell’Occidente – non solo in quanto questa tradizione, fondata com’è su una rivelazione scritturale, orienta il pensiero a riconoscere la centralità dell’interpretazione; né solo perché, liberando il pensiero dal mito dell’oggettività, l’ermeneutica dal canto suo apre la via all’ascolto dei molteplici miti religiosi dell’umanità; ma in termini sostanziali, di legame fra ontologia nichilistica e kenosis di Dio – significa incontrare anche questi problemi di reinterpretazione del senso del cristianesimo nella nostra cultura» (così in Oltre l’interpretazione). E tuttavia Vattimo sembra ben consapevole della necessità di dover distinguere e non omologare i due orizzonti (quello occidentale e quello cristiano). In un lavoro, non presente in questa raccolta, firmato insieme al collega Richard Rorty e intitolato Il futuro della religione: solidarietà, carità, ironia (Garzanti, Milano 2005), leggiamo: «Come la letteratura occidentale non sarebbe pensabile senza i poemi omerici, senza Shakespeare, senza Dante, così la nostra cultura nel suo più ampio insieme non avrebbe senso se volessimo tagliarne via il cristianesimo».

Il terzo “incrocio” lo definirei “speculativo” e si situa proprio in quella “prospettiva rovesciata” rispetto al cattolicesimo trionfalistico e militante sopra evocato. Siamo di fronte, come i più hanno già ben evidenziato in questi giorni, al “cristianesimo kenotico”, che si esprime nel “pensiero debole” riproponendo la dialettica, ricorrente in epoche e circostanze diverse, fra la theologia gloriae e la theologia crucis, di luterana memoria (meglio crux nostra theologia). Nell’orizzonte teoretico fondamentale di Vattimo si tratta di liberare la fede cristiana dall’aggancio metafisico, percepito come profondamente violento, e supportarla con quella che, nella tradizione heideggeriana e gadameriana, possiamo chiamare una “ontologia dell’evento”. Ma, a modesto parere di chi scrive, non si tratta dell’evento-avvento dell’ultimo dio, contrapposto heideggerianamente a tutti gli dei che lo hanno preceduto e in particolare al dio cristiano, piuttosto di trattenere il Dio di Gesù Cristo, svincolandolo dalle gabbie metafisiche che ne avrebbero smarrito il senso autentico.

Il pensiero kenotico, in quanto contrasta la hybris moderna, si è definito post-moderno, sia pure, in maniera originale rispetto a prospettive altre che pure assumono tale “etichetta”. La distanza può essere colta ad esempio nel fatto che il filosofo torinese non approda a una visione post-secolarizzata espressa nel ritorno del “sacro” e quindi in una sorta di “neopaganesimo”, che ritroviamo in svariate riflessioni fra cui quella di recente riproposta da Chantal Delsol nel suo volume La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (Cantagalli, Siena 2022). Infatti, se nell’ermeneutica del Nostro, la cristianità, ovvero il cattolicesimo convenzionale, è destinato allo scacco, non così la fede cristiana, che va ripensata alla luce di quel principio kenotico che da sempre la caratterizza. C’è ovviamente da chiedersi se per il filosofo il venerdì santo sia l’ultimo giorno della settimana di passione e non contenga quel fondamento agapico che risplenderà al mattino del primo giorno della settimana. Nel primo caso la data della morte indicherebbe il definitivo sprofondare nel nulla eterno dell’uomo Vattimo. A parte l’idiosincrasia che egli mostrava nei confronti di qualsiasi “fondamento”, comunque sempre ritenuto aggressivo e violento, la prospettiva agapica non è assente dal suo “pensiero debole”, che comunque dichiara di non ritenere “principale” il riferimento nella speculazione cui intende dedicarsi. E tuttavia risultano più che suggestive queste espressioni: «Ebbene, proprio qui si dovrebbe ritrovare il “principio di carità” che, forse non a caso, costituisce il punto di incontro fra ermeneutica nichilistica e tradizione religiosa dell’Occidente. Non c’è alcun limite “oggettivo” della secolarizzazione; l’agostiniano “ama et fac quod vis” vale anche per l’interpretazione della Scrittura. Il senso del riconoscimento della parentela con l’ermeneutica nichilistica, per la dogmatica cristiana (indichiamo così i contenuti della rivelazione neotestamentaria), è il venire in luce della carità come unico contenuto decisivo del messaggio evangelico» (in Oltre l’interpretazione). Personalmente ho incontrato le pagine di Vattimo per la prima volta nella lettura che ho dedicato all’edizione italiana (Bompiani, Milano 1983) del capolavoro di Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, che Vattimo ha introdotto e curato. Il debito pertanto è reciproco: quello del filosofo verso la kenosi e quello del teologo verso l’ermeneutica, che assurgerà al ruolo di vero e proprio modello, destinato a seppellire e sostituire quello neo-scolastico, con tutte le potenzialità e criticità che ogni modello comporta nel suo esercizio.

Resta il problema della fede. A ogni funerale devo sempre ripetere che il giudizio sul credere di chi ci ha preceduto non può essere che di Dio. A questo riguardo Vattimo ci offre un suggerimento, dicendo, non solo nel titolo di un suo libro, ma in tutto lo sviluppo del suo pensiero, che egli “crede di credere” (Garzanti, Milano 1996). L’accezione può essere senz’altro duplice. Nel linguaggio diffuso può sembrare che, se qualcuno afferma di credere in qualcosa, in fondo stia semplicemente esprimendo la propria opinione sul tema. Il filosofo torinese raccontava che, interpellato da Gustavo Bontadini, il quale gli chiedeva se credesse, rispose immediatamente e semplicemente “Credo di credere”. Allora ci chiediamo: quella che segue il verbo alla prima persona è una filastrocca di opinioni, che attendono di essere vagliate dalla filosofia? Oppure si tratta di una professione di fede in senso squisitamente teologico? Ed è qui il punto cruciale. Se quando dico “credo” intendo un affidamento incondizionato, allora la domanda diventa: in chi o in che cosa credo? La fede biblica, e in particolare neo-testamentaria, rivolge la propria adesione non a un cosa, come una serie di progetti e intenzioni, principi e valori, ma a un Chi. Si tratta di un rapporto interpersonale: io-tu. E per il credente cristiano si tratta del proprio rapporto con Gesù di Nazareth, un rapporto che Vattimo, quale degno allievo di Luigi Pareyson, ha declinato sotto il segno della debolezza e della croce.