Sport in lutto. Addio a Gianluca Vialli, il piccolo lord del calcio
È morto Gianluca Vialli: a 58 anni l'ex attaccante si è spento a Londra, dopo aver combattuto contro un tumore al pancreas. La famiglia di Vialli ha confermato la morte dell'ex campione con una nota. "Con incommensurabile tristezza annunciamo la scomparsa di Gianluca Vialli - fanno sapere -. Circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità. Ringraziamo i tanti che l'hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori"
La vita, a volte, è una rovesciata dolorosa e non spettacolare, come quella che Gianluca Vialli in un giorno di pioggia tirò fuori dal cilindro magico del fuoriclasse davanti agli occhi stupiti della sua gente di Cremona. Lì era nato 58 anni fa. Signori si nasce e Gianluca lo è sempre stato, in campo e fuori. Un piccolo eroe esemplare del calcio che se ne va, troppo presto. Una rovesciata maligna quella che lo trascina di prepotenza nel mondo dei più, per via di un male difficile anche da dire (tumore al pancreas, un cecchino che non perdona).
Ma come il suo amico doriano Sinisa Mihajlovic che adesso lo aspetta Lassù con lo zio Vujadin Boskov, il Gianluca nazionale ha combattuto come un leone, fino alla fine. Si è spento a Londra, città che l’aveva chiamato per chiudere una carriera aurea, sponda Chelsea. L’ambiente più consono per un piccolo lord cremonese, cresciuto nel maniero di famiglia, educato al bon ton della ricca borghesia padana, ma con un cuore generoso e popolare che ricordava i suoi inizi calcistici come quelli dell’ex ragazzo dell’oratorio del Cristo Re, nel paese di Grumello Cremonese. Più giù, a Jesi, in quegli stessi pomeriggi dell’infanzia, all’oratorio di San Sebastiano stava sbocciando il talento del suo “gemello del gol”, Roberto Mancini, con il quale insieme, dal 1984 al 1992, avrebbero reso grande e ancora insuperata la Samp del presidente Paolo Mantovani.
E la foto di una vita sta tutta in quell’istantanea del loro abbraccio: in lacrime, come due ragazzini che alzano il primo trofeo della vita. Wembley, notte magica di Euro 2020: c’è tanto del ct Mancini e del virgilio azzurro Vialli in quella storica vittoria della Nazionale. C’è l’anima di Roby&Gianluca, due ragazzi amanti dello sport e della vita, prima ancora che del calcio. Eccoli lì, invecchiati, con le rughe, ma eterni Peter Pan diventati responsabili e maturi. Mancio ancora con il ciuffo ben pettinato ma scavato anche lui dal tempo, e Gianluca, con la pelata lucida - come quella testa pensante da uomo in più, ovunque si trovasse - senza più la montagna di ricci che esibiva, assieme al calzettone calato alla Mariolino Corso, quando era il golden boy della Cremonese anni ‘80. Il mister di allora, Emiliano Mondonico, il “Mondo” (morto di cancro, anche lui troppo presto) stravedeva per Vialli, come fosse il figlio maschio che non aveva avuto.
Anche il “Mondo” che adesso lo riabbraccia forte, si è goduto i primi passi del talento e l’ultimo spettacolo del suo Gianluca, dirigente campione d’Europa. Lui e il Mancio, due cinquantenni con lo stesso sguardo delle ex simpatiche canaglie doriane che in quel tempio del football inglese, trent’anni fa, lasciarono sull’erba di sua Maestà la Regina il sogno di una vita: la Coppa dei Campioni del '92, sfuggitagli di mano per via di una punizione bomba dell’olandese Koeman che la strappò alla Samp e se la portò a Barcellona. Quella Coppa dalle grandi orecchie poi Vialli se la riprese con la Juventus nella finale di Roma del ‘96 battendo ai rigori gli olandesi dell’Ajax.
Reuters
Ma vincerla con il suo gemello Roberto sarebbe stata un’altra cosa. Gianluca però, non era uomo da rimpianti, convinto come la madre di Steven Spielberg che «il rimpianto è un’emozione sprecata». Ha sempre sorriso guascone alle sconfitte, anche le peggiori, come quella malattia diagnosticatagli nel 2018. L’ha affrontata con la grinta e il coraggio del campione, ma consapevole che certi mali non si possono sfidare a viso aperto. «Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me», ha lasciato scritto nel suo libro Goals. 98 storie più 1 per affrontare le sfide più difficili (Mondadori).
Un mantra esistenziale, ribadito anche ad Alessandro Cattelan, nella docuserie Una semplice domanda (da rivedere su Netflix) in cui confessava: «Ho paura di morire. Non so quando si spegnerà la luce né cosa ci sarà dall'altra parte. Ma in un certo senso sono anche eccitato dal poterlo scoprire». Al pressing asfissiante dei cattivi pensieri, Vialli ha opposto la sua resistenza, credendo ciecamente alla bellezza della vita che gli ha dato tanto e che lo ha fatto sentire fino al 90’ «un uomo fortunato, perché ho ancora tanti progetti da portare a termine».
Due le lezioni fondamentali che aveva appreso dal cancro, che considerava «un compagno di viaggio». La prima è che «la vita è fatta per il 20% di quello che ti succede, ma per l'80% dal modo in cui reagisci a quello che accade». E la seconda, ed è l'insegnamento che ha trasmesso anche alla moglie Cathryn e alle due figlie Olivia e Sofia, e perfino restituito alla madre 87enne Maria Teresa - nei giorni scorsi aveva preso il primo volo per Londra, solo per abbracciare per l’ultima volta il suo Gianluca - «è che la felicità dipende dalla prospettiva con la quale guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, devi ascoltare di più e parlare di meno, migliorare ogni giorno, devi aiutare gli altri». Mi commuovo ancora a rileggere quest'ultimo pensiero forte di Gianluca: «Devi aiutare gli altri». Lui lo ha fatto, specie in tempi non sospetti, quando tutto nel suo quotidiano procedeva al meglio e non c’era neppure l’ombra della malattia. Il tanto che aveva ricevuto dal calcio aveva deciso di ridarlo indietro con la Fondazione creata con un altro ex compagno di battaglie in campo, l’amico Massimo Mauro.
Gianluca Vialli - Fotogramma
La prima missione della Fondazione Vialli-Mauro è stata aiutare gli ex calciatori malati e poi morti di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica). Perché lo fai? Gli chiesi alla presentazione della Fondazione a Torino. Lui, candido, rispose: «Me lo impone la mia coscienza di uomo che sente di essere stato molto fortunato nella propria vita e ritiene di dover fare qualcosa per quelle persone che soffrono. Così ci occuperemo, per aiutarli in ogni modo, dei malati di cancro e dei 5-6mila pazienti affetti dalla Sla che purtroppo ha colpito anche alcuni nostri colleghi calciatori». Oltre 60 le morti di quello che noi abbiamo chiamato il “Morbo del pallone” e sul quale qualche domanda più approfondita Vialli se l’era fatta.
Aveva conosciuto uno per uno, passando casa per casa, tutti gli ex colleghi malati di Sla e con Mauro nel tempo hanno raccolto milioni di euro che sono stati devoluti alla ricerca portata avanti da Arisla. Tempo fa, anche l’arbitro Giuseppe Rosica, morto di Sla nel 2019 (aveva 63 anni), dal suo letto in una palazzina del Torrino, a due passi da Trigoria, la casa della Roma, ricordava Vialli con stima ed affetto: «Una volta in campo l’ho ammonito, ma Gianluca, da ragazzo che conosceva i valori dello sport, poi si avvicinò e mi strinse la mano scusandosi... Bel gesto, di quelli che non si dimenticano».
Non ti dimenticheremo mai neppure noi, caro amico delle domeniche più belle della nostra giovinezza. Sarai sempre nei nostri cuori e vivrai ancora in quelli di milioni di tuoi tifosi sparsi in tutto il mondo, e soprattutto resterai nel cuore dei tuoi cari e del tuo gemello Roberto, che per non farlo piangere ora dobbiamo rivelargli di quella volta che alla domanda: che ne pensi del Mancio allenatore? avevi risposto con il tuo bel sorriso spensierato: «Non diteglielo che poi si monta la testa, ma Roby è un vincente. Un grande allenatore che farà parlare ancora molto di sè». Avevi giocato d’anticipo Gianluca, come sempre.